ANVGD_cover-post-no-img

«Bilinguismo a Fiume? Una responsabilità legale della città» (Voce del Popolo 30set13)

Dopo le polemiche nate attorno all’introduzione delle tabelle bilingui, scritte in caratteri latini e in cirillico a Vukovar, abbiamo voluto paragonare la situazione con il capoluogo quarnerino. Le generazioni più mature ricorderanno che a Fiume vigeva il bilinguismo. Questo fu, infatti, introdotto “de iure” – per legge – nel 1947, ma “de facto” anche prima, nel ‘45. Accadde però che le numerose insegne furono selvaggiamente tolte nell’ottobre del 1953, quando Trieste venne assegnata all’Italia. Le contestazioni territoriali tra Italia e Jugoslavia, legate alle Zone A e B, ebbero come ripercussione una situazione di tensione, e quindi di stallo, tra i due Paesi interessati.

Circostanze che inevitabilmente provocarono anche dei contraccolpi nei confronti della Comunità Nazionale Italiana nella Jugoslavia di allora. Da qui nuovi e forzati, cambiamenti di nomi, intimidazioni di ogni genere, altri abbandoni imposti, e la rimozione forzata – senza alcun ordine legale – delle tabelle bilingui a Fiume. Una rimozione messa in atto da persone che, molto probabilmente, agirono su ordini superiori. Le tabelle bilingui – sinonimo di civiltà e convivenza multietnica – non furono mai più rimesse, e fino a oggi in tal senso non è stata presa alcuna decisione ufficiale.

Dal punto di vista giuridico la Città di Fiume ha una responsabilità legale che è rimasta completamente ignorata per ben 60 anni. Ecco perché ne abbiamo voluto parlare con il giovane connazionale Marin Tudor, mediatore culturale ed economista con la passione per la storia di Fiume, amore che coltiva, ci dice, da quando aveva 6 anni. I primi passi li fece nella ricca biblioteca di famiglia a cui seguì una solida preparazione di livello accademico in storia dell’Europa Orientale e soprattutto di varie espressioni del diritto pubblico, sia statale sia internazionale. Marin Tudor si è riproposto come obiettivo di impegnarsi per il ritorno del bilinguismo nella segnaletica a Fiume.

Come nasce questo suo interesse?

“Sostanzialmente per amore verso la mia città, ma anche per amore di giustizia, com’è intesa a livello europeo, nella sua forma riconciliante e pluriculturale. Io sono per il multilinguismo, cioè il multiculturalismo. Avendo vissuto dei periodi in 6 Paesi molto diversi, dalla Francia alla Russia, dalla Svezia a Cipro, non posso che amare il bilinguismo e auspicare come fine ultimo il multilinguismo. So quanto siamo distanti rispetto all’Europa in tema di rispetto e soprattutto valorizzazione delle minoranze e delle specificità locali.
Ma il nostro futuro, come una delle città maggiori del GECT ‘Euroregio Senza Confini’, di cui faremo parte dall’anno prossimo, è, volenti o nolenti, multilingue. A Fiume, i cittadini e i professionisti di successo potranno parlare al contempo croato, italiano, sloveno e tedesco. Il bilinguismo italiano, che è un dovere e diritto costituzionale a Fiume, rappresenta in questo senso il primo passo per aiutare i nostri figli e nipoti in un futuro di successo in Europa”.

 

Perché ritiene che a Fiume ci siano le condizioni giuridiche per un ritorno del bilinguismo?

“Pola aveva una situazione molto simile a Fiume a livello legale e l’ha utilizzata per costruire l’attuale bilinguismo in città. Consultando i vari statuti, non ho trovato notizia di una sospensione ‘de iure’ di quella legge. Sempre ammesso che non si sia fatto qualche reset generale, nel 1991. Lo stato jugoslavo aveva un approccio un po’ complicato verso le etnie, a livello legale. C’era un triplice concetto di Comunità Nazionale: le etnie che avevano la loro ‘nazione’ nella Federazione, come croati, serbi, ecc. erano considerate minoranze. Le etnie che avevano un proprio stato nazionale esterno, e quindi italiani, ungheresi, cechi, ecc., erano considerate popoli. Le etnie che non avevano uno stato, infine, come i valacchi o i rom, erano considerate gruppi etnici.
Il bilinguismo in Jugoslavia esisteva in varie forme. Il Kosovo, ad esempio, era interamente bilingue, parti della Macedonia e della Vojvodina pure, come alcuni comuni dell’Istria. In questi luoghi vigeva un bilinguismo totale, i toponimi erano bilingui e gli impiegati pubblici erano tenuti a conoscere l’italiano (nel nostro caso), mentre lo Stato era tenuto a finanziare le scuole come anche il resto delle attività. Queste regole sono state poi riprese dalla Slovenia e dalla Croazia, cosa che era anche tra le condizioni richieste per essere riconosciuti come Stati.
Ma esisteva pure il bilinguismo limitato, che vigeva nei comuni di Fiume e Pola. Gli italiani avevano diritto a una traduzione delle toponimie più blanda, nonché alle proprie scuole. Potevano contattare con le istituzioni comunali e giudiziarie in lingua italiana; gli impiegati pubblici non erano tenuti a sapere l’italiano, ma l’ufficio era obbligato ad avere almeno una persona che lo parlasse. Pola, negli anni ’90, su questa legge ha emendato il proprio bilinguismo al livello di quel bilinguismo superiore, riconosciuto in Croazia e ancor prima in Jugoslavia. Fiume non l’ha fatto, ma credo che la legge dovrebbe essere ancora vigente. Va aggiunto che la costituzione croata per quanto riguarda le etnie è la copia della costituzione della ex Jugoslavia”.

Quali sono, secondo lei, i possibili sbocchi per un ritorno delle insegne bilingui a Fiume?

“In primo luogo andrebbe richiesta un’analisi approfondita da parte di un legale. Magari portata avanti a livello istituzionale, ma anche da privati, attraverso una ‘class action’, ossia un’azione legale condotta da più soggetti che hanno a cuore il bilinguismo. Al di là delle regole, a mio avviso si tratta di un diritto che andrebbe studiato tramite il framework europeo, soprattutto con un grande appoggio dell’Italia e degli esuli. Con delicatezza, evitando di far chiudere a riccio le istituzioni e i media croati. A livello di richiesta non vi sarebbe niente di strano. Capodistria ha esattamente le stesse caratteristiche numeriche di Fiume sia adesso sia prima dell’esodo. E lì c’è un bilinguismo totale. Idem per i tanti esempi in ogni parte d’Europa. Romania e la Serbia (Vojvodina) hanno maggiore rispetto delle minoranze rispetto alla Croazia”.

Quanto è realizzabile tutto ciò?

“Secondo me è realizzabile perché è la legge a imporlo. Secondo il Trattato tra la Repubblica Italiana e la Repubblica di Croazia – concernente i diritti delle minoranze del 5 novembre 1996, e ratificato nel ’97 dal Sabor croato con la firma dal Presidente Tuđman –, la Croazia s’impegna a estendere al massimo i diritti della minoranza italiana autoctona. Perciò, nel quadro dei diritti della Comunità Italiana di Fiume, gruppo autoctono, ne risulta che lo Stato croato non rispetti il trattato. Poi c’è la legge costituzionale sulle minoranze autoctone in cui lo Stato s’impegna con tutte le misure necessarie a non far scomparire le minoranze. La Croazia, quindi, ha il dovere costituzionale di intervenire”.

Gianfranco Miksa
la Voce del Popolo” 30 settembre 2013

0 Condivisioni

Scopri i nostri Podcast

Scopri le storie dei grandi campioni Giuliano Dalmati e le relazioni politico-culturali tra l’Italia e gli Stati rivieraschi dell’Adriatico attraverso i nostri podcast.