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La Voce del Popolo – 250807 – Pinguente, una storia lunga migliaia di anni

Pinguente ha una storia pressoché identica a quella di tante altre cittadine dell’alta Istria e, come tanti altri, l’abitato occupa la sommità di un’altura dominante la larga valle, antico letto del fiume Quieto, fino a qualche secolo fa addirittura raggiungibile dal mare risalendo il canale d’acqua ancora ampio e profondo.
Da castelliere istro a fortezza romana col nome di Pinquentum, divenne borgo medievale fortificato e la sua storia percorre un periodo lungo migliaia di anni. Caduta nel VI secolo sotto il dominio di Bisanzio, fu soggetta ai soliti Patriarchi di Aquileia fino al 1420 quando passò a far parte dei possessi veneziani. L’attuale aspetto risale, appunto, per quanto ancora ne rimane, all’ultima fase storica segnata dalla presenza dei dogi. È da quel momento, infatti, che cominciò a prender forma la struttura urbana definitiva, favorita dalla residenza del governatore militare dell’Istria veneziana, trasferitosi qui dalla fortezza di Raspor. Infatti il Caprin (Capitanie del Pasenatico) dice: “… nel 1511, continuando le ostilità con l’Austria, il 16 giugno Cristoforo Frangipani e Nicolò Rauber presero Raspo per la seconda volta e ordinarono ai propri guastatori di diroccarlo completamente. Nel frattempo con la città di Pinguente, guadagnata dal generale veneziano Arcelli, nel 1420 si completò l’annessione alla Repubblica Veneta di tutta l’Istria patriarchina e questa diventò la residenza del capitano militare della stessa. Vi si stabilì un presidio di quaranta uomini di cavalleria sotto il connestabile ed un deposito di fuochi d’artificio per la guerra, di munizioni per l’artiglieria e di ogni sorta di armature per i soldati come: aste, moschetti, maglie, picche, frecce e celate…”.

Punto strategico di fronte al pericolo dei Turchi

Come si vede la cittadina era stata proposta come punto strategico molto importante di fronte al pericolo rappresentato dai Turchi (che tra l’altro tentarono senza fortuna di espugnarla) e di fronte alle ininterrotte lotte tra Venezia e l’Austria. Fu allora che vennero rinnovate le mura. Nel 1437 infatti i provveditori veneti fecero eseguire una verifica dello stato delle fortificazioni allora esistenti, che si trovavano in evidente stato di abbandono. Le opere di consolidamento delle mura e del torrione principale, sotto al quale si apriva la Porta Grande, nonché delle altre torri e dell’edificio della Porta Piccola, si svolsero comunque con la consueta lentezza.
Ecco come quel Caprin già citato scrive ancora della cittadina istriana e della sua posizione: “…Esposta a tutto giro di sole, nel mezzo quasi di un anfiteatro alpino, è serrata a levante da monti sassosi. Le biade perciò crescono fino agli orli dei burroni e la vite s’insinua con le sue radici tra le ghiaie. Su alcuni prati verdi pascolano mandrie di cavalli da fatica e da soma, e sui ciglioni delle cave di marmo pecore bianche e nere vanno brucando il trifoglio ed il crescione. Il Quieto, che poco lungi fa la sua comparsa con una gronda copiosa, è subito obbligato a lavorare ed a muovere le ruote di una dozzina di mulini e di macchine per la tessitura. Ma la via solcata dal fiume è gioconda di verde, qualche salice rovescia giù la pennacchiera, i giunchi segnano con la loro chioma bianchiccia i limiti frequenti delle frazionate proprietà campestri e le viti di refosco si schierano sulle dolci alture con le loro foglie color rosso sanguigno. Pinguente è uno dei luoghi di montagna più ameni e più antichi di cui faccia menzione la storia, e che prese parte pure al Placito del Risano dell’804”.

Dopo lo splendore… la decadenza

Sempre lo stesso autore triestino nel suo saggio risalente al 1895 (Capitanie del Pasenatico) dice ancora. “… Del resto qui si vedono dadi con le sculture del basso impero che fanno l’ufficio di serraglie delle campagne e bassorilievi che sono stati adoperati nella costruzione dei muri di cinta. Nel XVII secolo Pinguente ebbe capitolo di sei canonici. Diede i natali a Vincenzo Ricci, celebre uomo di lettere e giudice in Chiari ed in Verona, ed a Marcello Marchesini, sommo traduttore delle opere di Orazio, principe dell’Accademia dei Lincei e dell’Arcadia” (e, aggiungiamo noi, oggi personaggi completamente dimenticati!) Il fontico della Piazza è istoriato di stemmi ed epigrafi e qualche casa è fregiata di lapidi dedicatorie, tra cui bisognerà notare quella dei de’ Verzi, che si segnalò guerreggiando per la Repubblica…”. Su questa lapide che noi inutilmente abbiamo cercato dovrebbe essere scritto in latino: “Casa dei Verzi sono – sempre soggetta al giusto Leone – per il cui regno lieta subirei la morte – 1629”. “Dipendevano dalla giurisdizione del capitano di Pinguente cinque castelli: Rozzo, Colmo, Draguccio, Verch e Sovignacco. Solo nel 1595 l’ufficio del Capitanato del Pasenatico venne rimesso al podestà di Capodistria e Pinguente cominciò a decadere”.

La costruzione del nuovo abitato

La piazza principale è dominata dalla massiccia chiesa parrocchiale di Santa Maria con campanile staccato, costruita già nel Medioevo su roccia viva e rinnovata alla fine del Settecento in forme barocche. Una visita merita anche la Cappella di San Giorgio del 1611, che si appoggia alle mura cittadine nei pressi della Piccola Porta e che possiede un bel campanile a vela con bifora. Ancora da ricordare la Casa del Capitano, adorna di blasoni e di iscrizioni; un fondaco eretto alla fine del secolo XVI e la monumentale cisterna grande sita nella piazzetta più alta della Cittavecchia.
All’inizio del secolo scorso si iniziò, nella piana sottostante, la costruzione di un nuovo abitato che oggi ospita anche la sede del Comune ed è appunto qui che dopo la Seconda guerra mondiale è sorta la nuova Pinguente.

La ricchezza e la pazienza

Naturalmente in una località così piena di storia, non potevano mancare le leggende che a tutt’oggi si tramandano anche se la televisione ha tolto ai nonni molte possibilità di narrarle ai nipoti. Una delle tante racconta che una volta il Signore fece dagli angeli annunciare sulla terra che avrebbe concesso una grazia a tutti gli uomini che gliela avrebbero richiesta. Per primo si presentò un riccone che subito s’inchinò e disse:
– Signore, concedimi una vita calma, piacevole e quanto di meglio la terra mi possa offrire.
– Sia esaudito il tuo desiderio! – esclamò subito il Signore.
Secondo, davanti il trono di Dio si presentò un monaco vestito del suo unico saio che disse:
– Signore, concedimi i beni ed i piaceri della vita!
– Li ho già dati via tutti! Se li è presi il ricco!
Il monaco ci pensò un po’ su e poi disse:
– Allora, te ne prego, concedimi la pazienza.
– E pazienza sia! – rispose Dio.
Da ultimo arrivò un poveretto, lacero ed emaciato, il quale a fatica poté dire:
– Dio onnipotente, fammi dono di tutti i beni della terra.
Il Signore rispose paziente:
– Non è possibile. Se li è presi tutti il ricco.
– Allora, te ne prego, dammi almeno la pazienza per poter sopportare la mia magra esistenza.
– Niente da fare, l’ho già data in dono al monaco…
È da allora che i ricchi possiedono tutti i beni e i piaceri della terra, i tanti monaci la pazienza, mentre ai poveri non rimane altro che tirare a campare con la loro malasorte.

La «moltiplicazione» delle vacche

Un’altra leggenda racconta quanto segue:
Parecchi anni fa a Pinguente viveva un povero contadino che aveva una sola vaccherella. Una domenica che s’era recato a messa sentì il parroco dire dal pulpito:
– Quello che verrà donato nel nome del Signore, verrà restituito cento volte!
Sentito questo, cosa fece il poveraccio? Si recò nella sua stalla, slegò la vaccherella, la condusse in quella del parroco, la legò alla mangiatoia e disse:
– La regalo al parroco nel nome del Signore.
Il giorno dopo il sacrestano portò ad abbeverare le bestie sul sottostante fiume Quieto. Ma ecco che la vaccherella, appena ebbe bevuto abbondantemente, inforcò il sentiero e tornò nella sua vecchia stalla. Seguita dalle altre otto. Appena il povero contadino le vide arrivare le legò credendo che Dio avesse ricompensato il suo dono. Naturalmente arrivarono subito parroco e sacrestano pretendendo la restituzione. Al che il contadino disse:
– Ma come? È stato lei signor parroco a predicare che quello che fosse dato in nome del Signore sarebbe stato ricompensato cento volte. Ebbene, io per la verità mi accontento di queste otto vacche…
Prete e sacrestano si guardarono e, a testa bassa, non poterono far altro che tornare in canonica.

 

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