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La Voce del Popolo – 131007 – Sovignacco e Castagna: una storia sulle sponde del Quieto

Nell’antichità questi due paesi, messi su due colli uno a sud e l’altro a nord del fiume Quieto, nei secoli hanno diviso praticamente la loro storia. Sovignacco era noto per i suoi tanti taglialegna, i quali operavano nei boschi di San Marco sotto Montona alle dipendenze di nobili legati al conte di Pisino, Castagna per i battellieri che trasportavano questo legname oltre Ponte Porton, fino alla foce del fiume che allora era sicuramente molto più largo e con un livello di acque molto più alto di adesso, legname che caricato su navi, immancabilmente finiva nell’arsenale della Repubblica di Venezia dalla quale il paese allora dipendeva.

Gli schiavi tolti dalle contrade alpestri dell’Istria

Poche le note su Sovignacco (sono del triestino Kandler): I nobili di antica stirpe austriaca che abitavano il castello, i Ravenstein, rispondevano dei propri atti come abbiamo già detto al conte di Pisino e dovevano prendere le armi e seguirlo nelle guerre. Esercitavano la giustizia sui contadini e sui taglialegna, eccettuati i casi di gravi reati, cioè: l’omicidio, la rapina sulle strade, il furto e il “forzo di donne” che erano di competenza dei giudici. Anche se commettevano disordini alle sagre era il giudice a intervenire arrestandoli, ma se prima riuscivano a toccare la terra del loro padrone spettava a questi il giudizio. Il feudatario poteva cedere ad altri o anche liberare i proprio servi (…) “ed è lecito supporre che ne facesse mercato perché Venezia sino al XIV secolo acquistava schiavi tolti dalle contrade alpestri dell’Istria”. Più tardi, anche Sovignacco come Rozzo, Colmo, Draguccio e Verch dipese dalla giurisdizione veneta del Capitano di Pinguente.

Né medici né preti…

Oggi di questo paesino sperso tra le pietraie non è rimasto molto: la chiesa parrocchiale del 1400 restaurata di recente con accanto, sotto i lodogni, il tavolo dei giudici; la chiesetta di San Rocco con degli affreschi molto danneggiati di un maestro udinese; i resti del vecchio castello; un agriturismo piuttosto fiorente da quanto abbiamo potuto giudicare e un totale di appena una trentina di abitanti stabili come ci ha spiegato un contadino, Vittorio Stokovac, quasi tutti anziani, perché “qui è difficile vivere, non abbiamo negozi, non abbiamo un medico, neanche il prete e per andare a scuola i ragazzi devono raggiungere Pinguente e allora tanto vale, per i giovani almeno, andarsene e tornare qui al sabato e alla domenica per tenere un po’ in ordine i vecchi edifici di famiglia”.
Lo stesso discorso ce lo fece un altro contadino, questa volta un certo Benito Miani di Castagna. Che subito si lamentò dicendo: “Sono passati i bei tempi quando avevamo anche la scuola piena di ragazzini. Oggi siamo in tutto trentasei abitanti e il paese si riempie un po’ soltanto alla fine della settimana quando rombando giungono le automobili”.

L’erba sul campanile

Noi siamo arrivati in paese con una fitta nebbia portata da uno scirocco umido ed inutilmente abbiamo all’inizio girato per le strade vuote cercando di scattare delle foto. Ma ecco il nostro incontro davanti la chiesa, anzi davanti al campanile, e a rompere il ghiaccio è stato proprio quell’abbondanza di erba che cresce sulla sua cuspide. Davanti la nostra meraviglia il signor Benito ci raccontò forse una leggenda: “Da sempre cresce l’erba sul campanile – ridacchiò –. Da sempre. Quando avevamo il prete e anche il sacrestano, bei tempi, il quale era un po’ pigro, inutilmente il sindaco – noi dipendiamo da quello di Grisignana – arrivò un bel giorno e gli intimò di pulire quell’erba che poteva anche rovinare l’edificio. Cosa fece il nonzolo? Andò su, pian piano perché molti gradini delle scale di legno sono rotti, gettò giù una corda, la fece legare alla testa del suo asino e tirò e tirò con tutte le forze nella speranza che la bestia arrivasse su a mangiarsi tutta quell’erba, anzi era anche contento perché a un certo punto si accorse che il mus aveva anche tirato fuori la lingua pregustando il lauto pasto, col risultato, inutile dirlo, che la povera bestia ci rimise la pellaccia!”.

Paese spopolato da guerre e pestilenze

Da quanto abbiamo appreso da alcune note del Caprin, Castagna appare per la prima volta nel 1102 quando il marchese istriano Ulrico II la regalò al solito patriarcato di Aquileia. In quel documento il paese viene indicato con la dicitura “Villa de’ Castan”. Quando poi alla fine del XIII secolo venne lasciata ai conti istriani, subì l’identica sorte di tanti altri paesi finché un secolo dopo entrò sotto la giurisdizione austriaca. Successe che la peste e le parecchie guerre spopolarono completamente il paese diventato nel frattempo feudo veneziano. E fu Venezia, appunto, che per ripopolare molti paesi istriani, fece arrivare anche a Castagna delle famiglie morlacche, tanto è vero che ancor oggi in un paesino di poche case che si trova nelle vicinanze ci sono alcune famiglie che di cognome fanno Biloslavo (cioè Slavi bianchi, dalmati). Comunque, la giurisdizione della città lagunare iniziata nel 1521, non durò molto. Soltanto nove anni dopo il paese venne messo all’asta e venne quindi acquistato da Giustiniano Contarini, famiglia che terrà il feudo fino alla fine del XVIII secolo.

Con otto barche verso la foce del fiume

E adesso torniamo assieme a Benito Miani che nel frattempo ci ha invitato a bere un caffè a casa sua. E così veniamo a sapere tante altre cose. Per esempio che la chiesa dedicata alla Beata Vergine e ai Santi Pietro e Paolo è stata costruita nel 1500 e ampliata nel 1747, che il famoso campanile con l’erba è stato costruito nel 1756 ed è alto 20 metri, ancora che ci sono dei resti romani dei quali però non si conosce la provenienza. Una stele, ad esempio, si trova davanti alla vecchia scuola. Castagna ebbe un cappellano addirittura nel 1300 e diventò parrocchia nel 1742, con relativo archivio il quale data già dal 1707. Poi il signor Benito ci raccontò anche dei famosi battellieri di Castagna: “Dal porto di Bastia, poco lontano da Ponte Porton, il legname veniva portato alla foce del Quieto con ben otto barche col fondo piatto e a vela. In assenza di vento, venivano spinte con delle pertiche o trainate lungo gli argini con delle funi e a forza di braccia e per tradizione di famiglia, tra i barcarioi vanno ricordati i Filiputti, i Saule, i Mian, i Calcina, gli Antonelli. Ma questi battellieri trasportavano oltre al legname anche vino, olio, grano e al ritorno sabbia, generi alimentari, concimi. Queste merci venivano poi caricate su carri trainati da buoi e arrivavano nelle botteghe di Castagna. Allora ce n’erano. Non come oggi, che non ne abbiamo più, neanche una piccola osteria, anche se per la verità di vino ogni casa ne ha fin troppo, ma è per la partita di tressette della domenica che ci manca a noi vecchiotti…”.

Il «tiro del tavolozzo»

Tra una chiacchiera e l’altra – dato che il nostro interlocutore sapeva proprio tutto, date comprese, speriamo che siano autentiche! – veniamo anche a conoscere i cognomi più comuni che sono: Biloslavo, appunto, poi Sparagna, Zigante, Mian o Miani, Saule, Bencich… Ancora di un antico gioco chiamato “tiro del tavolozzo” le cui regole sono state trovate nell’Archivio di Pisino e che datano dal 1751, un gioco che si svolgeva precisamente a Castagna per la festa dei patroni. Si trattava di colpire con un fucile e una sola pallottola la bota, cioè un centro ben segnalato a trenta passi di distanza…

«Tre de luganin, tre de formajo, tre de pan…»

A questo punto chiedemmo delle leggende. E allora fu la moglie a prendere la parola: “Lassime parlar a mi adesso che ti ti ga predicà bastanza…”, disse ridacchiando. E cominciò asciugandosi le mani sulla traversa:
– Questa ce la raccontava sempre mia nonna che sapeva tutto di tutti. Una volta, quando in paese c’era ancora l’osteria, arrivò un tale per fare merenda. Si accomodò e ordinò all’oste: tre pani, tre salsicce, tre fette di formaggio, tre bicchieri di vino.
Tranquillo mangiò, bevve, anche ruttò e poi chiese il conto. Disse:
– Tre de pan, tre de vin, tre de luganin…
E l’oste: – E tre de formajo…
– Digo ben: tre de formajo, tre de pan e tre de vin…
Di nuovo l’oste: – E tre de luganin…
– Digo ben: tre de luganin, tre de formajo e tre de pan…
Ancora l’oste arrabbiato: – E tre de vin…
– Digo ben: tre de vin, tre de formajo, tre de luganin…
E l’oste ormai rosso di bile: – E tre de pan…
– Digo ben: tre de pan, tre de vin e tre de luganin…
Per finirla, l’oste infuriato lo agguantò, lo scaraventò fuori dell’osteria senza fargli pagare neanche un soldo. Era proprio quello che il buontempone voleva perché in tasca non aveva neanche una palanca…
Risata generale. Uscimmo dalla casa dei Miani. La nebbia s’era un po’ diradata e così potemmo scattare qualche foto per ricordare quella bella gita improvvisata in un paese affacciato sul fiume Quieto.

 

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