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La Voce del Popolo – 081207 – Ricordo di Don Giuseppe Radole

Come si saprà giorni fa, all’età di 86 anni, si è spento a Trieste Don Giuseppe Radole, docente, compositore e organista di fama internazionale. Nacque a Barbana d'Istria. Nel 1932 entrò nel Seminario di Capodistria, dove conseguì la maturità classica. Iniziò anche a coltivare la sua passione per la musica, tanto che già a quattordici anni iniziò a dirigere la corale del Seminario. Fu ordinato sacerdote nel 1944. Al conservatorio Tartini di Trieste insegnò armonia, ma la sua passione era l'organo e l'arte organistica cui ha dedicato tutta la sua vita. Fu presidente della Commissione Diocesana di Musica Sacra e direttore della Cappella civica in San Giusto a Trieste. Ma oltre alla musica Don Radole aveva anche la passione di scrivere. Scrivere per conservare la memoria e le tradizioni istriane. Fu infatti anche un grande etnologo. Citeremo qui soltanto alcune delle sue opere dedicate a questi argomenti: "Orazioni come filastrocche"; “Fiabe istriane raccolte a Barbana”; “Canti Popolari raccolti a Materada, Buroli e Visinada in Istria”, (Centro per lo studio dei dialetti veneti dell'Istria; “Settanta nuove fiabe istriane”; "Proverbi istriani raccolti a San Lorenzo del Pasenatico”… In sua memoria, e visto che siamo ormai prossimi a Natale e a Capodanno, pubblichiamo in questa e nelle due prossime edizione di Esuli e rimasti un passo del suo libro Folclore Istriano (MGS Press, Trieste, 1997), che rihiarda proprio le festività natalizie.

La penitenza dell'avvento aveva termine con il rigorosissimo digiuno della vigilia santa:
Chi no digiuna la vizilia de Nadal, xe pezo de un animal.
Rientrati a casa dopo la messa dell'aurora, si prendeva una tazzina di caffè nero o un bicchierino d'acquavite con un figo seco o una fetina de pan de figo. A mezzogiorno si faceva la sopa di pane scaldato sulla brace, in una tazza di vino bianco, che ai ragazzini veniva addolcito con un pizzico di zucchero, mentre tra i grandi c'era chi vi aggiungeva un cucchiaio di olio d'oliva e un po' di pepe: ed era tutto. Il pasto abbondante, permesso dal precetto, veniva consumato la sera.
Le ore del mattino erano riempite da alcune incombenze proprie del padrone di casa, tra cui quella di pestare con arte il baccalà, che era sempre della qualità «ragno», senza sfregolarlo (sbriciolarlo) e metterlo quindi a bagno per una buona ora. La seconda incombenza era di tirare il collo al cappone o al gallo, di appenderlo ad un chiodo a testa in giù, per farne uscire il sangue: avrebbe rallegrato la mensa del pranzo di Natale.
La padrona di casa a sua volta, che aveva impastato il pane prima ancora di andare alla messa dell'aurora, scaldava il forno e vi metteva ad arrostire el pan conzà con l'olio d'oliva. Più tardi dava gli ultimi ritocchi alle pulizie della casa e sistemava le coltrine bianche con i merletti e la tela de la napa, stirata a fisarmonica. Tutto doveva essere in ordine per la benedizione della casa.
Nel pomeriggio veniva intronizzato el zoco (il ceppo), il più antico segno del Natale, che dall'ampio focolare avrebbe rallegrato con il suo calore e gli scoppiettii il cuore dei grandi e dei piccini. Sarebbe rimasto acceso sino a Capodanno e possibilmente sino all'Epifania. Quel fuoco si caricava di molti simboli: forza purificatrice, immagine del sole che riprendeva ad alzarsi sull'orizzonte, figura dell'anno che si consumava. In Istria la tradizione del ceppo si ingentilì di poesia e di leggenda. Lo si lasciava, infatti, ardere giorno e notte, perché semmai la Madonna e san Giuseppe fossero passati di là, avrebbero trovato un po' di calore dove asciugare e scaldare i panisei del Bambino. Il che lo troviamo anche nel canto:
Bela note de Nadal
bela messa voi cantar:
Canta, canta rose e fior
che xe nato nostro Signor;
el xe nato zo in Betlem
infra 'l bo' e l'asinel.
San Giusepe veciarel
xe vignù a scaldar la fassa
con tuto el panisel,
per infassare Gesù bel,
Gesù bel, Gesù d'amor
per infassare 'l nostro Signor.
Il ceppo serviva anche per trarre gli auspici. Il nonno di casa, infatti, lo percuoteva ripetutamente con le molete o col sofieto facendo scaturire centinaia di falische (scintille) e dicendo: tante falische, e Dio dassi tanti sachi de gran, tante brente de ua, de patate, sachi de formenton, ecc. La cenere del ceppo, in qualche zona, veniva raccolta e sparsa nei campi contro gli insetti nocivi, e sopra i giumenti per preservarli dalle malattie della pelle. Pure i carboni spenti venivano conservati, avendo essi la virtù di allontanare la grandine.
Gli alberi di Natale, invece, non erano conosciuti se non da una rara élite di famiglie della borghesia tedesca e dell'ufficialità militare, presente in gran numero a Pola e a Trieste, cui si accodavano quelle famiglie benestanti, desiderose di essere alla pari dei padroni di allora. Lo storico triestino Pietro Tomasin (1845-1925), parlando della festa di san Nicolò come si celebrava nel secondo Ottocento, conferma la rarità dell'albero di Natale dalle nostre parti e la sua importazione nordica. Egli scrive: «Un tempo tutti i muletti triestini, quando ancora la nostra Trieste, scimmiottando i tedeschi, non conosceva l'albero di Natale, aspettavano con ansia il giorno 5 dicembre, …» (da un manoscritto in nostro possesso). Su questa stessa linea ci sembra di trovare anche Giuseppe Vidossi, che mette l'albero di Natale nel novero delle usanze importate, senza che nel passato fossero uscite dall'ambito di determinate classi sociali.
Non abbiamo, invece, trovato riscontro alla ipotesi affacciata da Diego de Castro (che gli è sembrata tuttavia degna di discussione) circa l'origine dell'albero (cit.): «Ho appreso anni fa, a Roma, da un professore di un'università pontificia, che l'albero di Natale è di origine mediterranea. Ha seguito, verso il Nord, la religione cristiana, favorito dall'abbondanza di abeti, ed è ritornato al Sud».
Raro nel passato anche il presepio, che veniva allestito nelle famiglie più distinte della borghesia italiana, segno anche quello di patriottismo, o nelle case di quei marittimi che avevano potuto acquistare le statuine durante le soste nel porto di Napoli.
Una testimonianza particolare del presepio a Capodistria l'abbiamo trovata tra le carte del prof. Carlo Riccobon. La riportiamo integralmente, perché ci sembra che affondi le sue radici nel Settecento, quando i monasteri femminili in quella cittadina erano più d'uno. Del resto, una simile attività delle monache è documentata, sempre nel Settecento, anche a Cividale.
A Capodistria era l'uso, e lo è tuttora, di preparare il presepio per la vigilia di Natale; il materiale adoperato era di provenienza casalinga. In un angolo della cucina, su un tavolo coperto di muschio, venivano disposte le varie figure, tutte confezionate dalle donne più anziane della famiglia (era sempre la nonna o qualche zia a prepararle per la gioia dei nipotini).
Nei conventi di monache esistenti in città venivano fatte immagini di santi in cera e così pure teste di bambole, ch'erano molto ricercate dalle donne del popolo, per farne bambole e figure per i presepi. Queste ultime venivano rivestite in carta rossa e azzurra per la Madonna e S. Giuseppe e con foglie di granoturco per le pastorelle ed i pastori.
Le pecore si facevano con dei pezzi di sughero infilati in bastoncini e ricoperti con lana di materasso, ad imitazione degli animali veri. Il corpo degli agnellini si faceva pure col torsolo di granoturco.
Davanti il presepio, che si disfava dopo la befana, ardeva sempre un lumino ad olio ed ogni sera si riuniva la famiglia per recitare il rosario e cantare canzoncine d'occasione.
Il Bambino Gesù, tutto di cera, era posto su un fastello di paglia e la stalla era fatta (tanto le pareti che il tetto) con la corteccia d'albero, e guarnita con ramoscelli d'edera.
Per quel che riguarda le rappresentazioni pittoriche della Natività in Istria, dobbiamo ricordare che le tracce più antiche si trovano in alcuni affreschi quattrocenteschi, di sapore quasi fiabesco, salvatisi dalla ignoranza distruttiva dei secoli posteriori. Citiamo qui anzitutto quello della chiesa di Santa Maria dei Docastelli (1470-84 c.), ancora ben leggibile, dove è rispettato il cliché più antico della raffigurazione natalizia: il Bambino nudo deposto in una cesta di vimini sotto una capanna-stalla; vicino a Lui, il bue e l'asinello (di cui, però, non parlano i vangeli canonici) intenti vistosamente a scaldarlo con il fiato; Maria Santissima in preghiera adorante; angeli che ammirano e cantano, leggendo come i musici da un libro, o che sono in missione di annunciatori della buona novella ai pastori; san Giuseppe, infine, appoggiato ad un bastone e tutto imbacuccato, se ne sta in disparte, vecchio e pensoso. Nelle chiese i primi presepi apparvero al principio del nostro secolo, per lo zelo dei frati francescani. A Trieste furono i Padri Cappuccini di Montuzza ad innalzare il primo, che il giovanissimo Giani Stuparich andava ad ammirare «con riverenza»

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