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La Stampa – 271207 – Anche l’esodo istriano nel nuovo libro di Stella

MARIO BAUDINO
 
Una storia breve, delicata, quasi un apologo. E anche, in buona parte, una storia vera. Gian Antonio Stella si è riaffacciato alla narrativa dopo l’enorme successo della Casta: «Dovevo respirare», dice dalla sua casa di «ragazzo di provincia», in Veneto. Ottantamila copie nelle prime due settimane di vendita sono un bel respiro davvero, ma non è a questo che pensa il giornalista scrittore. La casta è stata una lunga fatica, una grandissima soddisfazione ma anche una sorta di interminabile apnea; ora La bambina, il pugile, il canguro, uscito per Rizzoli, ne sembra quasi un contravveleno gentilmente somministrato ai lettori: un po’ d’aria fresca, una finestra aperta, un altro mondo.

Là si ribolliva di sdegno, qui c’è un mondo completamente diverso, di quelli che ti fanno piangere o ridere ma ti mandano a letto, magari, un po’ più sereno di prima. «Se qualcuno a sera, dopo averlo letto, si addormenta sorridendo, io sono contento», dice Stella. Lui non è nuovo alla narrativa. Aveva esordito con Il maestro magro, storia del figlio di un puparo che emigra in Polesine e, pur di insegnare, mette insieme una classe di adulti e analfabeti. Un romanzo malinconico e tuttavia allegro. Ora la bambina del nuovo libro gli ha permesso «di raccontare un altro pezzo d’Italia», vero e roccioso almeno come quella del malcostume, dove vivono – e muoiono – i personaggi: soprattutto Letizia, la piccola Down che vive felice grazie ai nonni, e Giusto Babich detto Primo, il nonno appunto, ex operaio, ex pugile dilettante, uno che quando è già in pensione si deve reinventare la vita.

«Se non ci fossero tanti nonni come Primo, l’Italia sarebbe già andata in rovina da tempo», dice Stella. Vero. Primo è la persona normale e proba, capace dell’inconsapevole eroismo della normalità. E in qualche modo è anche una persona reale. Esiste veramente, da qualche parte nel nostro Paese, innamorato della nipotina Down. Stella ne ha sentito parlare, o forse ha parlato con lui. Conosce la sua storia. Il resto, naturalmente, è finzione, invenzione letteraria, narrazione anche tragica. Si svolge a Trieste, dove a causa dell’ostinazione ingannevole d’un medico antiabortista che dissuade la madre dall’amniocentesi, nasce Letizia, con tutti i suoi problemi.

Il colpo, per i genitori è terribile: da una parte la madre rifiuta la piccola, dall’altra il padre, uno spiantato ubriacone, scompare. Tocca a nonno Primo, insieme con la moglie, occuparsene. E lo fa con entusiasmo e fatica, innamorato pazzo di quella bambina che per lui è bellissima, e che gli sorride felice; supera difficoltà e lutti terribili, come il suicidio della figlia o l’improvviso ritorno del genero, dopo un’insperata eredità lasciata alla piccola da una ricca signora. Ci sarebbe anche la vicenda del canguro (è di peluche) ma è un peccato anticiparla, visto che sta nelle ultimissime pagine dove Stella ci confeziona un finale sorprendente e per certi verso terribile, anche se non privo di speranza. In qualche modo, anzi, riassume bene il paesaggio umano di quell’Italia che tiene, quella delle persone di cuore e di buon senso.

Intorno a questo nocciolo centrale convergono storie parallele, come quelle dei pugili più o meno sfortunati che l’anziano racconta alla piccola invece delle favole, e quella dell’esodo istriano. Primo è nato a Portole, da dove è fuggito quando nel ‘54 la cosiddetta «Zona B» è passata definitivamente sotto sovranità jugoslava, e a un certo punto lo vediamo tornare, per poche ore soltanto, al paese che ormai non è più quello, tra fantasmi del passato e melanconiche tenerezze dell’oggi, ma senza risentimenti. Il libro è breve, ad alta densità e tuttavia senza fretta, senza enfasi. Tutto pare semplice, nella vicenda. «È stato un lavoro difficile – riflette Stella – proprio perché doveva essere raccontato come una favola». Ed è stato anche un libro felice. «Adriano Sofri ha scritto di essere disposto a scommettere sul fatto che io avrei dato volentieri cinque milioni di copie, senza batter ciglio, per questo libro piccolo piccolo… Be’, ha proprio ragione».

È una storia universale, quella di Letizia e di Primo. Farla svolgere a Trieste, con l’Istria sullo sfondo, è stata una necessità narrativa o, diciamo così, sentimentale? «Sentimentale. Una vicenda come questa potevo ambientarla dappertutto. A me interessava perché è quella di un perdente, o meglio di uno che in apparenza è un perdente, eppure resta sereno e attaccatissimo alla vita, in grado di cogliere dalla vita stessa tutto il buono che c’è». È anche la storia di un ex pugile dilettante, che non ha avuto successo e, quasi alla fine della sua esistenza, piazza un gancio di dinamite nel momento sbagliato, anche se non forse alla persona sbagliata. In letteratura il pugile è spesso una grandiosa metafora del perdente. L’ha voluto per questo? «Per la verità mi sono imbattuto in storie di pugilato, vere, che mi hanno appassionato. Allora ho cominciato a leggere tutto quel che trovavo sull’argomento. Era materiale formidabile, esaltante». I pugni, così, sono diventati favole. Ma non è detto che questa favola non sia capace di rifilare qualche pugno.

Autore: Gian Antonio Stella
Titolo: La bambina, il pugile, il canguro
Edizioni: Rizzoli
Pagine: 124
Prezzo: 12euro
 

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