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La scossa di Oberdan a Trieste (corriere.it 05 ott)

Durante il Risorgimento l’eterogeneità della classe dirigente economica triestina, orientata prevalentemente in direzione dei mercati centroeuropei, frenò lo sviluppo di movimenti liberali favorevoli al progetto unitario italiano. Ciò fu particolarmente evidente nel biennio 1848-49. Il tentativo messo in atto dai cosiddetti «favillatori» (i redattori della «Favilla», uno dei periodici più vivaci del Risorgimento) di instaurare a Trieste, in analogia con quella veneziana di San Marco, una Repubblica di San Giusto, fallì anche a causa della mancanza di qualsiasi sostegno da parte dei ceti popolari. Usciti in strada, i patrioti trovarono non gli arsenalotti di San Marco, ma gli ostili facchini delle ditte cosmopolite, presumibilmente incoraggiati dalle stesse. Vennero in buona parte espulsi, o si allontanarono. Del resto non avevano manifestato unitarismo italiano, né ancora rifiutato apertamente l’idea di «nazione triestina»; pensavano, a quanto risulta, a una collocazione politica autonoma di Trieste.

Nel decennio successivo, l’opposizione politica vera e propria alla monarchia asburgica rimase episodica. Lo studente Costantino Ressmann, futuro diplomatico del Regno d’Italia, parlò di Trieste, nel 1853, come di una «città d’inferno, che mette cuori e coscienze a tariffa, soffoca di propria mano i migliori». Il leader dei liberal-nazionali Francesco Hermet così giudica il decennio: «Fino al 1859 marasma assoluto nella vita pubblica. Trieste piombò nell’antica atonia, pur sempre mantenendo viva sotto la cenere la favilla benefica».

Intanto si rafforzava il municipalismo. Di fronte alla carenza di una prospettiva autenticamente europea, affidata alle sole fortune asburgiche, la città tendeva a chiudersi in se stessa. Con la crisi del 1860 inizia il costituzionalismo in Austria e riprende la dinamica politica. Si consolida l’unità amministrativa di una nuova regione, il Litorale, comprendente Gorizia, Trieste e l’Istria. Trieste acquista, da quel momento, lo statuto di «città immediata dell’impero», gode cioè della prerogativa di «città provincia», non soggetta al controllo di una Dieta, è dotata di un proprio luogotenente, la cui autorità si estende a tutto il Litorale. È il momento in cui la borghesia viene chiamata al potere, soprattutto nell’Austria tedesca, e i liberali si affermano nelle elezioni a Trieste e da allora, quasi ininterrottamente, mantennero il controllo del Comune.

Questi liberali sono indubbiamente espressione di larghi strati della borghesia e dei ceti medi: il loro programma, essenzialmente amministrativo, è centrato sulla richiesta della più ampia autonomia comunale. Passa in seconda linea il motivo romantico della Trieste incrocio di civiltà e benché Vittorio Emanuele II avesse detto ad un gruppo di studenti che «a Trieste ci andremo ma con il cannone», si vede la possibilità di affermazione prima nell’evoluzione interna dell’Austria che nella politica di Cavour, il quale ben sa che la questione triestina non è attuale, e c’è anche interesse per la Confederazione germanica.

Trieste entra nel coro di quanti in Austria reclamano autonomie, diritti storici, federalismo. Aspira a diventare uno Stato nell’Austria, a porsi sul piano dell’unione personale col sovrano. Sarà uno dei fondamenti della dottrina irredentista. Quindi si è favorevoli agli ungheresi che si battono su questa linea e la Dieta di Trieste fu tra le poche (con Tirolo, Bucovina, Istria, Gorizia, Dalmazia) a mandare un indirizzo di ringraziamento all’imperatore quando, nel 1865, sospese la Costituzione, per avere mano libera sulla questione magiara.

Quando l’Ausgleich (compromesso) sancì la duplicità della monarchia e l’Austria divenne Austria-Ungheria, Hermet dichiarò: «Non possiamo negare a quel regno (d’Ungheria) quella giustizia che vorremmo fosse fatta a noi». L’obiettivo dell’Ausgleich non fu, ovviamente, raggiunto ed il municipalismo fu forte fattore di isolamento nell’Impero, di separatezza rispetto agli altri italiani dell’Austria-Ungheria, che non potevano vantare pari pretese di diritto storico. I triestini non si aggregano al desiderio dei comuni istriani e trentini, di entrare nella confederazione italiana progettata da Napoleone III. Prodromi di irredentismo separatista sono percepibili nella corrente democratica, talora nella liberale.

Negli anni cruciali dell’unità italiana troviamo insieme triestini, istriani, friulani e veneti. Pochi istriani, pochissimi triestini, più friulani avevano partecipato nelle file italiane alle campagne del 1859-61, ma il loro numero crebbe in quelle del 1866-70, sicché troviamo tre triestini a Villa Glori e due operai triestini tra gli uccisi dalla polizia papalina nell’attacco a Casa Alani.

Nelle elezioni amministrative e politiche Trieste continua a mandare al Consiglio-Dieta e alla Camera di Vienna, in prevalenza, candidati filogovernativi ed una minoranza di liberali, mentre l’Istria, Gorizia e Udine mandano in maggior numero liberali di sentimenti italiani o addirittura, in qualche caso, si rifiutano di eleggere deputati al parlamento di Vienna. Nel decennio 1860-70 nascono le prime associazioni operaie di mutuo soccorso, germe dei futuri sindacati, e i primi scioperi contro durissime condizioni di lavoro. Coscienza sociale e coscienza nazionale sono ancora patrimonio comune dei primi animatori del movimento. Le prime persecuzioni poliziesche colpiscono del pari gli assertori dell’ideale patrio e dell’ideale sociale: un centro d’arruolamento per Garibaldi è scoperto nel 1860 nel rione popolare di San Giacomo a Trieste e i suoi promotori sono arrestati; la polizia si scaglia contro gli scioperi e contro le manifestazioni di italianità. Nel 1869 si fonda la «Società operaia », italiana e socialisteggiante ad un tempo. Ma sono un’italianità che ancora non ha in odio gli slavi e una socialità in cui permane lo spirito cosmopolita; infatti lo scrittore e patriota garibaldino Giuseppe Caprin non esita a dichiarare in un discorso che «l’operaio non è né tedesco, né italiano, né slavo, né francese, egli è bensì il lavorante del tempio della pace…».

Nei figli di papà l’adesione al movimento irredentista è spesso un moto di reazione al conformismo conservatore dei padri. Del resto, anche nel Regno d’Italia l’irredentismo nasce garibaldino, radicale, d’opposizione e la base culturale e politica di pionieri del socialismo adriatico, come Carlo Ucekar e Giuseppina Martinuzzi, fu garibaldina e mazziniana. Quando la Bosnia fu occupata dall’Austria (1878), qualche decina di richiamati triestini disertò in Italia. Tra questi Guglielmo Oberdan, salutato sulle rive di Trieste al momento dell’imbarco clandestino su un peschereccio da Carlo Ucekar, allora irredentista. Le vicende della Bosnia suscitarono una vasta eco a Trieste ed il capo degli insorti, Miho Ljuibratic, trasportatovi in stato d’arresto agli austriaci, ricevette calorosi saluti in italiano e in croato. Fu quello, comunque, il momento di maggiore vitalità della gioventù irredentista di Trieste e dell’Istria con un non indifferente numero di perquisizioni, arresti, condanne per atti sediziosi; questo irredentismo (1878-82) aveva una struttura organizzativa, una stampa che cautamente sosteneva collegamenti con ambienti del regno; fu uno dei pochi momenti di «Risorgimento » a Trieste e si alimentò del margine di equivoco che caratterizzò la politica estera italiana prima del Congresso di Berlino (1878). Ma con il prevalere degli interessi delle grandi potenze il garibaldinismo tramontava, mentre l’Italia entrava nella Triplice alleanza (1882).

Fu allora che Guglielmo Oberdan, tra i più giovani irredentisti fuggiti in Italia nel 1878, ammettendo l’accusa di aver voluto attentare alla vita dell’imperatore, si immolò per farsi modello. Infatti, sopravvisse come mito. Il suo contributo alla causa fu notevole, perché la risonanza del fatto diede avvio alla considerazione dell’irredentismo italiano come uno dei problemi europei.

Marina Rossi

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