ANVGD_cover-post-no-img

La memoria degli italiani adriatici in fondo al pozzo (Voce del Popolo 22 feb)

Sabato 25 febbraio, a Reggio Emilia, avrà luogo un incontro – non indichiamo il promotore perché non è questo il punto quanto l’impostazione e i contenuti proposti – in cui si presenterà una lettura diversa delle vicende del confine orientale, che, a nostro avviso, contribuirà solo a produrre altra confusione accanto a quella già esistente nella popolazione italiana. Ma non si offrirà una chiave di lettura ampia, in cui, accanto alla questione delle foibe e dell’esodo, affrontare la “più complessa vicenda del confine orientale”, come recita il testo di legge numero 92 del 30 marzo 2004, quindi anche ciò che avvenne “prima”; assisteremo bensì, ancora una volta, a interpretazioni impregnate di ideologia che, evidentemente, non permettono un approccio sereno a un argomento che ormai dovrebbe rappresentare un problema storico da affrontare senza stereotipi, specie da parte di coloro che non hanno avuto alcun coinvolgimento.

 

            Anche all’appuntamento dei prossimi giorni si desidera andare “oltre ogni mistificazione degli ‘italiani brava gente’, contro ogni forma di revisionismo neofascista della storia e al di là di ogni amnesia politica di convenienza”, e quindi ricordare “italianizzazione e fascistizzazione forzata, colonialismo e guerra, utilizzo di armi di distruzione di massa sulle popolazioni, pulizia etnica, crimini di guerra e campi di concentramento fascisti, civili torturati, deportati e trucidati, occupazione, sfruttamento e oppressione”. Ci sarà di tutto pur di fuorviare l’esplicazione. E chi saranno i relatori? Gli storici e ricercatori Davide Conti e Alessandra Kersevan, con quest’ultima che non ha bisogno di ulteriori presentazioni e le sue boutade sono più che eloquenti. È quella che, tra i tanti spropositi, ha affermato candidamente che “commemorare i morti nelle foibe significa sostanzialmente commemorare rastrellatori fascisti e collaborazionisti del nazismo”. Perciò, quanto si era consumato in quelle che formavano le province di recente acquisizione, in realtà non sarebbe stato altro che una punizione per quanto il regime del Duce aveva commesso nei confronti della componente slava.

 

Accogliere siffatta spiegazione significherebbe che i funesti accadimenti furono solo una conseguenza del fascismo, ossia, per usare un proverbio, “chi semina vento raccoglie tempesta”. Ma la storia delle nostre terre è fin troppo complessa per ridurla a questa semplice equazione. E in questo le “amnesie” italiane non aiutano né a superare l’ignoranza imperante né contribuiscono a fare sì che i problemi del suo confine orientale siano compresi, seguendo percorsi scevri di implicazioni ideologiche contrapposte.

 

Non giovano, anzi contribuiscono ad alimentare la carica di una sinistra retrograda e recalcitrante ad accogliere e a confrontarsi con i risultati storiografici più recenti, che mostrano un quadro sovente diametralmente opposto a quello che la volgata si sforza di far passare. E solleva vespai nei giovani Stati di Slovenia e Croazia, che si vedono accusati di atrocità e si sentono offesi da una Repubblica che sembra aver steso un velo sulle nefandezze del regime nero contro quelle stesse popolazioni. Ma siamo sicuri che l’Italia democratica, nata dall’antifascismo, sia tanto smemorata e abbia occultato le pagine meno nobili della storia contemporanea? Il Belpaese ha in più occasioni condannato il Ventennio, a differenza di altri che si ostinano a difendere altri sistemi senza vederne le pecche. A prevalere è lo scontro politico, in cui le cui parti utilizzano, fino ad abusarne, i tragici episodi con il fine di incolpare, giustificare o passare per vittima. Quelli sono episodi del passato e pertanto dovrebbero rappresentare solo un oggetto di trattazione e ricostruzione storiografica in cui la politica dovrebbe ritirarsi. Nel 1959, cioè a pochi lustri dalla fine del secondo conflitto mondiale, nel corso del convegno dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, che si teneva a Genova, lo storico Gabriele De Rosa, a proposito dello studio del fascismo e dell’antifascismo, evidenziava la “necessità di scrivere storia senza spartire ragioni e torti a destra e a manca e secondo una sensibilità politica di molto posteriore agli eventi che si studiano”, perché “il dibattito storico non può essere la stessa cosa di un dibattito giudiziale”.

 

Considerazioni che dopo oltre mezzo secolo accettiamo in pieno. Non sarebbe il caso di fare tesoro di questo insegnamento? Anziché speculare sui morti e sulle disgrazie di un popolo – e mi riferisco a quanti manipolano il passato per qualche tornaconto, senza sconti per nessuno e per alcun colore politico – per quale motivo non ci si confronta con i fatti, con quanto è realmente successo? Non accade per il semplice fatto che negli armadi ci sono ancora troppi scheletri che determinati ambienti non vogliono si scoprano. E poi ci vuole onestà intellettuale, caratteristica piuttosto rara al giorno d’oggi, ma dovrebbe essere presente almeno tra gli studiosi. Utopie. Per trovare qualche forma di legittimazione e/o di sdoganamento, chi agisce politicamente e mescola nel suo operato la storiografia, si trova giocoforza a difendere l’operato dei suoi predecessori. Chi critica o comunque si leva il fardello e riconosce anzitutto i torti commessi dalla sua parte diventa un rinnegato che dev’essere combattuto (Pansa docet). Se poi una determinata componente politica mena le danze e controlla il rubinetto dei finanziamenti, essa ha la possibilità di proporre iniziative nei più diversi settori, contraddistinti da messaggi sia espliciti sia impliciti.

 

La realizzazione e la messa in onda su Rai Uno, nel 2005, del film per la televisione “Il cuore nel pozzo”, antistorico e dalla trama sempliciotta oltre che offensivo nei confronti sia delle vittime innocenti finite in una voragine sia di chi fu sradicato dalla terra d’origine, è un esempio quasi da manuale. Tutti poi enfatizzano, distorcono i fatti, dimenticano “pezzi”. A chi giova? In concomitanza con l’ultimo Giorno del Ricordo ne abbiamo sentite per tutti i gusti. Qualcuno ha affermato che nelle foibe era finita mezza Istria – attenzione, non ci fu una mattanza come in Ruanda negli anni Novanta del secolo scorso, e sebbene la fiction sopraccitata l’abbia fatto passare per buona, la dinamica fu diversa –, altri banalizzano quelle uccisioni definendole una pura “resa dei conti”, strascico normalissimo al termine di una guerra o, peggio ancora, un semplice e privato regolamento di conti. Ci fu anche questo, è innegabile; quei vincitori, però, che già nel corso della guerra avevano combattuto per compiere la rivoluzione comunista in Jugoslavia, allo zittire delle armi erano pronti a edificare il nuovo ordine. L’ordinamento illiberale non permetteva l’esistenza di forme di opposizione, di conseguenza si colpì chi in qualche modo rappresentava lo Stato italiano o più in generale non voleva la Jugoslavia medesima.

 

Dobbiamo allontanare i tabù altrimenti le stramberie continueranno e bandire le verità di stato così come i miti. In quel frangente si attuò quella che è stata definita “l’epurazione preventiva”. Nelle eliminazioni quanti erano effettivamente compromessi con il fascismo o commisero nequizie? Questo è il punto. Definire tutti “sic et simpliciter” “martiri” è molto azzardato, perché nella primavera del 1945 furono giustiziati, senza distinzione d’appartenenza etnica, in Istria come in altre regioni, anche i peggiori collaborazionisti: i torturatori, coloro che nel periodo buio successivo all’ottobre del 1943 avevano partecipato ai rastrellamenti, agli incendi dei villaggi, alle ruberie, e questi non hanno nulla da spartire con quanti perdettero la vita perché “nemici del popolo”, espressione di comodo applicata a tutte le categorie non gradite; in buona parte senza alcuna colpa. E sempre per quell’onestà intellettuale che abbiamo ricordato, va detto che in questi episodi non vi furono solo gli “Slavi”, come comunemente si legge, ma anche gli Italiani di fede comunista che si trovarono coinvolti. D’altra parte una cosa analoga non si era forse registrata anche nel cosiddetto “triangolo rosso”?

 

Bisogna ricordare tutto, senza censure. Le polemiche dal sapore politico, l’altalena delle cifre, l’abuso dei morti, “giusti” e “sbagliati”, fanno riferimento solo alle foibe, che certamente allarmarono le comunità in parecchie località dell’area, ma non furono l’elemento scatenante dell’esodo, tranne che in minima parte. In Italia, però, la vera tragedia delle nostre contrade, l’esodo per l’appunto, è sì e no menzionato, e sovente è fatto passare come l’ultimo atto dopo una serie di angherie, con gente che sarebbe scappata di fronte ai massacri. Le cose non stanno proprio così e ad un pubblico che a malapena ha qualche nozione è dannoso presentare una vicenda con argomenti che fanno acqua da tutte le parti. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a spaccature, in Slovenia e Croazia, in cui si parla sempre di “optanti” e di opzioni, quel pezzo di carta firmato che serve oggi a lavare una coscienza sporca, e non si riconosce che qualcosa, evidentemente, non è andato “a buon fine”, altrimenti un territorio non si sarebbe spopolato. La sinistra italiana più radicale, invece, continua ad usare il paraocchi, non coglie la portata di quel dramma, gioca sulle cifre, trova mille giustificazioni e attribuisce tutta la colpa al fascismo. Ancora una volta il chiodo aveva schiacciato il chiodo, fine. Credo che siano pochi coloro che comprendono.

 

In un decennio circa dai territori dell’Adriatico orientale non è scomparsa tutta la popolazione, bensì un’intera componente nazionale. E per taluni questo non basterebbe all’istituzione del Giorno del Ricordo; anzi, ottusamente si accosta l’esodo al rimpatrio degli Italiani dalle ex colonie (Dodecaneso, Libia, Africa orientale). Dopo una guerra perduta, quindi, i presunti occupatori avrebbero preparato i bagagli per raggiungere il territorio metropolitano. Quando contrasteremo queste menzogne? Ci fu un rientro di personale e di nuovi arrivati, approdati dopo il 1918, ogni nuova amministrazione lo fa ed è inevitabile, ma è completamente falso il ragionamento sopra sintetizzato. L’esodo o l’espulsione delle comunità italiane, termine che non piace perché non vi fu mai un decreto specifico, ha lacerato e strappato un intero popolo abbarbicato su quei territori dalla notte dei tempi, modellandoli e lasciando un’impronta indelebile. Quella componente così come noi oggi, “resti dei resti” di una presenza, non è un corpo estraneo giunto per volontà di qualcuno alterando una regione – mito duro da morire e parte integrante del nazionalismo croato e sloveno fin dalla metà dell’Ottocento, ecco perché è doveroso considerare anche le radici più profonde del problema –, è figlia di quell’ambiente, e si manifesta palesemente nelle parlate dialettali, negli usi e costumi, nella toponomastica, nell’urbanistica oltre che, naturalmente, nella storia, che una spugna è sempre pronta a cancellare e una penna a mistificare, anche dopo oltre sei decenni. E l’Italia continua ad ignorare, per interesse, ma anche per non sollevare questioni, comprese quelle diplomatiche, e subire i biasimi dei vicini stati che non perdono l’occasione per evidenziare i suoi “appetiti”.

 

È il prezzo della cambiale per il passato fascista. E allora ha senso accostare questi drammi con la scellerata politica mussoliniana messa in atto nelle colonie per soffocare le ribellioni, con la politica snazionalizzatrice nei confronti di Sloveni e Croati ma anche di Tedeschi e altre minoranze o le violenze di ogni tipo compiute nel 1941-43? Gli Italiani del confine orientale avevano forse più colpe dei connazionali di Genova, Ravenna, Salerno o Messina? Non credo proprio. Hanno avuto la disgrazia di trovarsi in un’area geografica contesa. A guerra finita per il vincitore, e in questo caso il suo colore ha poca importanza, giunse il momento per “correggere” la situazione, per attuare la sua affermazione nazionale e il suo riscatto. Le bandiere con la stella rossa e i canti sloveni in piazza Unità a Trieste avevano questo significato. Riemersero piani che d’inedito avevano ben poco, la stessa “fratellanza italo-slava” si rivelò un fallimento e il nazionalismo jugoslavo o meglio sloveno e croato non fece altro che alimentare un esodo che sfuggì letteralmente di mano con i risultati che si conoscono. La memoria non può essere condivisa, chi lo auspica è un ingenuo. Le vicende della Venezia Giulia parlano chiaro. La memoria e le sofferenze, anche quelle degli altri, però, possono e devono essere conosciute, è il primo passo per abbandonare le certezze assolute, le ragioni inamovibili e allargare gli orizzonti, sempre se non sono offuscati dalla stoltezza ideologica! Quegli Italiani hanno pagato per tutti il conto di una guerra sbagliata.

 

Oggi si vuole appaiarli al regime di Mussolini solo perché qualcuno ha ancora la coda di paglia. L’Italia del littorio con la sua politica espansionistica e repressiva dev’essere studiata – senza un conflitto catastrofico nessuno avrebbe alterato i confini –, ma c’entra ben poco con la quasi scomparsa di un popolo, finito ramingo ai quattro angoli del globo, e la calcolata trasformazione dell’ambiente umano e sociale, che si protrasse ben oltre il dopoguerra. Anche la memoria degli Italiani adriatici è finita in fondo al pozzo!

 

Kristjan Knez “La Voce del Popolo” 22 febbraio 2012

0 Condivisioni

Scopri i nostri Podcast

Scopri le storie dei grandi campioni Giuliano Dalmati e le relazioni politico-culturali tra l’Italia e gli Stati rivieraschi dell’Adriatico attraverso i nostri podcast.