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La Giornata del futuro (Voce del Popolo 11 feb)

Grazie all’istituzione, nel 2004, della Giornata del ricordo si sono in parte colmati quei vuoti e quei colpevoli silenzi che per cinquant’anni hanno contribuito ad oscurare il fenomeno dell’esodo, e dunque a sottrarre questo drammatico momento della storia civile italiana alla percezione dell’opinione pubblica e alla coscienza collettiva dei contemporanei.

Da quando si è deciso di dedicare una giornata alla memoria di quei tragici eventi, sono stati ottenuti dei risultati incoraggianti; oggi, almeno in Italia, per la gran parte delle persone il fenomeno dell’esodo e delle foibe non è più un tabù, un capitolo di storia del tutto sconosciuto. Con le numerose iniziative promosse ogni anno per far conoscere ai giovani la ferita inflitta, nel dopoguerra, al tessuto civile, culturale ed umano di questa parte della Venezia Giulia è, forse, iniziato anche un complesso percorso di “elaborazione” del trauma, di “purificazione” delle numerose “tossine”, che esso ha provocato.

Si tratta di capire, oggi, se questo processo, da più parti auspicato, sia realmente iniziato o, meglio, se vi siano le condizioni affinché questo importante “salto di qualità’” possa realmente compiersi.

Il punto, a cinque anni dall’istituzione della Giornata del ricordo, non è solo quello di sapere se oggi, in Italia, vi sia più sensibilità ed attenzione nei confronti della dimensione dell’esodo, o conoscenza dei fatti riguardanti il confine orientale, ma capire se (e come) sia possibile superare effettivamente le profonde fratture che l’Istria, Fiume e la Dalmazia hanno subito a conclusione del secondo conflitto mondiale. Se cioè con la consacrazione e la condivisione del ricordo, la conoscenza diffusa di quei fatti si possano anche ricomporre le lacerazioni che – con l’esodo, le foibe, lo sradicamento quasi totale di un popolo e della sua identità –, le nostre regioni hanno subito in quest’ultimo secolo.

Taluni continuano ad asserire, con cinica rassegnazione che, passato tanto tempo, ormai tutto è perduto e, dunque, ben poco resterebbe da fare. Altri ribadiscono che qualsiasi percorso di “riconciliazione” storica ed umana, o di “superamento” dei solchi che la Seconda guerra mondiale ha prodotto, sia impossibile o quantomeno prematuro.

A nostro avviso il vero significato della Giornata del ricordo sta proprio qui: nell’essere cioè il punto di partenza di un complesso processo di superamento di un trauma, il modo migliore per cercare di dare un senso, attraverso l’“appropriazione” e l’elaborazione collettiva della memoria, alla difficile esperienza dell’esodo e garantire un futuro all’eredità culturale, nazionale e civile degli italiani di queste terre.

Il coronamento di questo processo potrebbe tradursi nel tanto auspicato momento di riconciliazione e nel comune omaggio dei tre presidenti, italiano sloveno e croato, ai luoghi della memoria per ricordare le vittime dei totalitarismi del Ventesimo secolo. Ma questo processo di riconciliazione e di superamento di un dramma collettivo deve innanzitutto passare attraverso la completa ricomposizione delle “membra sparse” dei rimasti e degli andati, sostanziarsi nella collaborazione e nella piena condivisione di obiettivi tra le associazioni e le strutture organizzative degli esuli e quelle della comunità nazionale “rimasta”.

L’esodo finirà di produrre i suoi effetti nefasti solo quando gli andati ed i rimasti avranno compiuto il passo più rivoluzionario della loro storia: quello della completa ricomposizione o, se vogliamo usare un termine più “forte”, mutuato dalla recente storia tedesca, della loro effettiva “riunificazione”.

Non possiamo aspettare che si incontrino, per dare vita ad un gesto di alta valenza simbolica, i tre capi di Stato; né che le sensibilità collettive, le forze politiche e le opinioni pubbliche dei tre Paesi trovino finalmente la forza e l’intelligenza di “riconciliarsi”. La vana attesa che questa lenta maturazione storica si compia potrebbe essere esiziale sia per il mondo degli esuli sia per quello della nostra minoranza. La posta in gioco è importantissima: la continuità della presenza culturale e civile italiana in queste terre.

L’Italia, la Slovenia e la Croazia non hanno bisogno, per il normale progredire delle loro relazioni economiche e dei loro multiformi rapporti di collaborazione, di compiere sino in fondo un processo di completa maturazione che porti le tre Nazioni a superare gli antichi motivi di divisione storica. Certo questo percorso sarebbe auspicabile e contribuirebbe a dare un nuovo impulso alla qualità delle relazioni. Ma per riannodare i legami e le sinergie tra gli spazi economici, riunire porti ed infrastrutture, continuare a fare affari, allargare e superare i confini non sono necessari grandi passi riconciliativi, né improbabili prese collettive di coscienza. Il vecchio confine tra Italia e Jugoslavia è stato definitivamente abbattuto con l’entrata della Slovenia nell’area Schengen, senza assistere a nessun grande gesto simbolico di riconciliazione, né a significativi progressi sul piano del superamento delle antiche divisioni storiche.

Gli unici ad avere un reale interesse comune a superare concretamente e completamente le loro divisioni sono gli esuli e gli italiani rimasti. Gli uni senza gli altri non hanno un futuro: gli esuli, perché senza la presenza viva della minoranza e del suo presidio di italianità sul territorio sono destinati a perdere ogni riferimento con la propria terra; i rimasti perché senza i valori di civiltà, l’eredità degli esodati non potranno mai valorizzare ed alimentare le proprie radici.

Esuli e minoranza hanno un obiettivo comune da cui dipende direttamente, a differenza di altri, la loro sopravvivenza: la continuità della civiltà millenaria della componente italiana di questo territorio. Continuiamo ad essere convinti che il modo migliore per superare i traumi dello sradicamento e dell’abbandono, per colmare il tremendo solco che la guerra e i totalitarismi hanno inciso così profondamente sulla nostra pelle, sia quello di affermare che la nostra civiltà non è morta, che la grande eredità culturale italiana dell’Adriatico orientale ha ancora radici profonde e una straordinaria vitalità. Altri vi possono rinunciare; certamente la Slovenia e la Croazia, forse persino, in un gesto di stolta e colpevole distrazione, l’Italia (che certo potrebbe continuare a sopravvivere, vista la stazza, senza questa sua piccola parte). Noi no.

Il senso della Giornata del ricordo è di tramandare e conservare una civiltà. Questo, che è anche l’imperativo categorico degli italiani rimasti, deve essere il punto principale di contatto e di intesa tra le due parti, sinora separate, del nostro piccolo popolo di “sradicati” e emarginati.

Possiamo batterci, insieme, per la soluzione definitiva del nodo dei beni abbandonati, per le nostre fondamentali istanze e rivendicazioni, per l’affermazione quotidiana dei nostri diritti: ma nessuno di questi obiettivi ha la portata, pur essendogli complementare, del nostro anelito principale: fare sì che i nostri figli possano continuare a parlare la lingua ed a coltivare le tradizioni e l’identità del nostro popolo nelle terre in cui siamo nati.

Certo la nostra terra non è più la stessa dopo lo stravolgimento dell’esodo, la drastica riduzione della componente italiana al ruolo marginale di minoranza, la depredazione e lo scempio sistematici – attuati dai nuovi poteri in oltre mezzo secolo –, delle risorse e delle tradizioni “autoctone” di una secolare civiltà.

Ma – coscienti che comunque non si possano ripianare i torti subiti –, siamo convinti che il modo migliore per dare un senso, oggi, alle sofferenze dell’esodo e parare i danni causati dallo sradicamento della popolazione italiana di queste terre, sia quello di batterci per la continuità della presenza italiana in Istria, Quarnero e Dalmazia: una presenza che non scomparirà mai finche vi sarà qualcuno a presidiarne i valori ed a tramandarne i contenuti.

La civiltà istroveneta, preveneta (istriota) e latina di queste regioni ha radici profonde; tanto profonde che nessun sconvolgimento potrà mai sradicarle se – questa la condizione fondamentale –, i suoi eredi, di qua e di là del confine, si impegneranno responsabilmente, unendo le loro forze, ad evitare che ciò avvenga.

Spesso, parlando dell’esodo di centinaia di migliaia di persone dall’Istria, Fiume e la Dalmazia, si tende a descrivere la tragedia e la dispersione di una comunità circoscritta nello spazio e nel tempo. Si dimentica però che la perdita determinata dall’esodo è innanzitutto la minaccia di perdita, totale ed irreversibile, di un’intera civiltà, dell’anello di congiunzione di un’interminabile catena (fatta di lingua, di cultura, di valori e tradizioni) che ha legato tra loro, sino ai giorni nostri, centinaia di generazioni.

L’identità e la realtà di queste regioni non possono essere comprese senza prendere in considerazione l’apporto determinante che la loro componente italiana, latina e romanza ha dato in oltre due millenni di storia. E soprattutto: non è possibile immaginare il futuro di queste terre – un futuro consapevole –, senza rispettarne e valorizzarne le radici; senza riconoscere e tramandare il comune bagaglio culturale e civile degli italiani “esodati” e di quelli “rimasti”.

Questo compito non potrà essere mai efficacemente e integralmente portato a termine senza il contributo delle associazioni e delle istituzioni culturali degli “andati” e della minoranza, la collaborazione tra le menti più aperte e preparate di un popolo diviso dall’esodo.

La collaborazione a livello individuale è stata sempre feconda sin dagli inizi, così come importanti sono gli esempi di cooperazione tra singole istituzioni; quello di cui avvertiamo l’esigenza oggi è invece di un “progetto comune” e ampiamente condiviso che ci consenta di riunire le nostre forze e le nostre migliori intelligenze.

Da tempo ci poniamo quest’assillante domanda: che cosa possiamo fare noi oggi per contribuire a rinsaldare le fratture storiche ed umane dell’esodo, per rimarginare la ferita inflitta a queste terre ed alle sue genti dalla guerra, dagli odi, dai totalitarismi e dalle ideologie; per chiudere, almeno in parte, il grande debito storico che la nostra coscienza di contemporanei ha accumulato nei confronti di un’Istria che è stata divisa e “pulita” etnicamente?

Possiamo fare molto: a condizione di delineare con chiarezza il quadro di un futuro possibile. Partendo da un presupposto fondamentale: quello di riconoscerci reciprocamente come appartenenti ad un popolo che non vuole essere più diviso, come eredi di un patrimonio storico, civile e culturale comune.

Oggi vi sono le condizioni per dare una prospettiva diversa alla triste vicenda dell’esodo, partendo proprio dalla Giornata del ricordo. Un “ricordo” che ci deve unire e non dividere, che deve aiutarci a guardare al domani.

Per consentirci di vivere, prima o poi, oltre a quella del ricordo, anche la Giornata del nostro futuro.

Ezio Giuricin

 

 

 

 

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