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La Dalmazia di Ervas, una terra crudele che sa carezzare l’anima (La Stampa 07 lug)

Il Westfalia California si mette in moto al primo colpo. Si fuma una pinta di gasolio, non è uno spettacolo ecocompatibile, però ci sono affezionato. Mi ha fatto addormentare con tramonti da sogno, davanti alla fortezza veneziana di Methoni, Peloponneso. Sono in debito e sopporto i consumi, non certo da crisi economica, il borbottio del motore, certi cigolii delle porte.

 

Adoro, quando posso, cercare qualcosa lungo la costa dalmata. Non so il perché tanta di suggestione. Sarà che Trieste mi ha tenuto con sé per nove mesi, nell’ospedale militare, a battere a macchina tra strampalati colonnelli medici e formidabili malanni anatomici che i fanti inventavano per sfuggire alla vita di caserma; sarà per la frontiera e l’eccitante sensazione di passare una linea; sarà per via del comunismo di Tito, che da giovane pareva imitasse la libertà; sarà per i campeggi naturisti dove finivi per apprezzare più la pulizia che le tette (meritevoli, ben s’intende).
Sarà. Ci sono andato spessissimo. Lungo la costa istriana, sino a Rovigno a cercare i cimeli sottratti al Baron Gautsch, piroscafo austriaco che giace sui fondali, affondato su mina italiana nel primo conflitto; salendo verso il fiordo di Koromacno, nel campeggio più soffocato da alberi che abbia mai visto; capatina a Motovun la bella Montona veneziana, leoni su una porta che domina, da una collina, terre di vini rossi e tartufi. Non proprio imperdibili, i tartufi.

 

Questa volta taglio l’Istria, mi immetto sulla costiera, la tortuosa, la regina dei rallentamenti: se t’incodi a un vecchio camion è fatta. Il tempo diventa medievale, ed è il tempo che il Westfalia preferisce, aerodinamicamente compromesso dal muso anteriore che lo fa somigliare alla capoccia di un alieno in vacanza.

 

Si vedono già, lungo la strada, gli spiedi per il maiale, perché avanza l’ora di pranzo, ma io preferisco ancora una slasticarna, una pasticceria con fette dolci così grandi che potresti coltivarci il basilico su un balcone di città, per non parlare dei bomboloni che potrebbero comodamente contenere, le monete, le chiavi di casa, il taglia unghie e gli occhiali da lettura.

 

La costa viene affiancata dall’isola di Pag, lunga compagnia chiara: accelero un poco, a un certo punto la sorpasserò, lasciandola affannata ed immobile. Ho visitato più di qualche isola, lungo questa costa. Krk, Cres, Losinj, Dugi Otok, l’isola lunga. Mai Pag, frenato dal pregiudizio che sia un’isola troppo secca, troppo bruciata.

 

Scendo dai miei pensieri quando vedo Zara e rifletto se entrarci per l’ennesima volta, ma scivolo via, come su sapone e mi faccio calamitare dall’indicazione per l’isola di Murter, sconosciuta, e finisco con il pranzare in un’osteria a Betina, soliti calamari fritti, vino bianco, un paio di vecchi spinosi seduti a fianco, sguardo bruciante, sembrano tutti pirati. E’ uno di questi ad indicarmi, con dolce cadenza triestina, il parco della Krka, prima della bianca Sebenico, una lunga rientranza del mare che va a mescolarsi con le acque dolci della Krka, un fiume minatore che scava le rocce calcaree e salta, riempie, salta ancora in una sequenza di catini d’acque verdi.

 

Che c’è di bello sulla Krka?, chiedo e quello sorride al socio, come se fossi l’inquilino dell’ultimo piano di un palazzone, e mi dice che c’è Skradin.

 

Ecco, vorrei morire a Skradin. Quando le curve mi lasciano vedere l’abitato, case veneziane colme di giuggioli, gelsi del mondo dei giganti, l’approdo per le barche a vela, l’ansa ampia del fiume, la bolla del tempo si sgonfia e rimango senza fiato.

 

È l’effetto di queste pietre, di questa acqua potente, dell’ombra dei gelsi, del caldo del Westfalia che non sa minimamente cosa sia l’aria condizionata. Sento che è una terra di fantasticherie. Dura, crudele anche. Per me leggera, ariosa, capace di accarezzarmi l’anima.

 

Dormo a Skradin. Sogno lunghi proteo color carne sui fondali della Krka e reti lanciate per catturare pesci, pregiati solo per le scaglie che finiscono, quasi invisibili, a Vienna ingrediente segreto per i belletti delle dame di corte. Sogno ed è il 1911 e dalla lontanissima Tunguska, dove era caduto un misterioso meteorite, è partito un pope che vorrebbe uccidere il giovane Gavrilo Princip. Il pope, illuminato dall’evento di Tunguska, sa che il giovane assassinerà l’arciduca austriaco, facendo precipitare l’Europa nella Grande Guerra e trascinando lo zar di tutte le Russie nel fango. Chissà se sarebbe servito uccidere il giovane Princip? Eliminare il catalizzatore.

 

A Trogir, Traù, il Westfalia inchioda davanti ad un mercatino di frutta e verdura, coloratissimo. Il venditore di frutta, enigmatico, pesa le pesche, una ad una, aspettando che dica: basta così, grazie. Alla quinta, mi fa segno che devo pagare, mi vede distratto. Dietro la frutta e la verdura c’è la foto di un platano colossale, un pilastro della terra se uno s’intende di fotosintesi. L’uomo dice che è l’albero di Trsteno, lontano lontano.

 

Più lontano di Orebic?, chiedo e così rivelo la mia meta, dove voglio arrivare perché ho una curiosità da soddisfare. Orebic viene prima, mi dice. Lo so, è un paesino della penisola di Peljesac, in direzione di Dubrovnik.

 

Seguo con lo sguardo le correnti veloci dell’acqua che si ritira nel mare, sopra un ponte, abbracciando d’un colpo un piccolo campanile di San Marco, la facciata intera di Trogir, affascinante come una cellula.

 

Penso a Orebic: possibile che una piccola comunità abbia prodotto, a cavallo tra ottocento e novecento, un gran numero di capitani di lungo corso? Tutti lì? E da lì imbarcati per mezzo mondo o tre quarti di mondo, i capitani di Orebic, che mi piace il nome, mi piace l’idea che certi ritagli di terra, come un orto coltivato, producano una zucca speciale, un capitano di lungo corso per l’appunto.

 

Continua a scendere, mi dico, che al largo c’è l’isola di Brac e di Hvar, potrei deviare, ma resisto alla tentazione. Il Westfalia non molla mai. Fuma, come un capitano con la pipa. Attraverso il confine con il Montenegro chiudendo gli occhi: troppo caotico cemento, un confine fatto di plastica. All’imboccatura della penisola di Peljesac ci sono le mura di Ston e anche legioni di cozze allevate che si lasciano apprezzare.

 

Orebic si rivela una lunga corsa, una salita è così impegnativa che il Westfalia mi consegna il testamento, arriva nel punto più alto con le lacrime agli occhi e io con lui. Pensa alla discesa, gli dico, ma la tosse non gli passa. Orebic ci accoglie con un campeggio familiare, slavi del sud che sono più alti di me che non sono basso, la solita birra che bevi senza accorgertene e le case dei capitani. Vecchie case di pietra affacciate al mare, spesso con giardini murati, con piante che hanno imposto la loro forma e la loro ombra. Il museo dei capitani ha bei modelli di navi, corde annodate, carte nautiche e fotografie stupende di uomini e certo deve essere una bella sensazione quella di governare una nave, forse è quello che si nota nelle espressioni dei volti: un punto di partenza, uno di arrivo, correnti e burrasche. Come la vita. Che governiamo poco, sarà perché ci crediamo capitani anche seduti ai tavolini di un bar. Ci vuole allenamento, tradizione. E questa si produce dentro il campo di forza di un luogo.

 

Hai capito?, dico al Westfalia: tu un motore ce l’hai, di che ti lagni (a parte il costo del gasolio)? Riparte, sempre al primo colpo. Lui non resiste e io nemmeno: allunghiamo verso Trsteno, verso il grande platano, che sono due e quando li vedo, un po’ ammaccati e immensi, non so più se morire a Skradin o a Trsteno. Davanti ad un’ansa di fiume o sopra un albero. Non lo so davvero. Allora attraverso di corsa l’Arboreto di Trsteno, una selva elegante, sino ad una terrazza sul mare, uno strapiombo come sarebbe piaciuto a Rilke, e mi lancio nel vuoto. Il Westfalia volante mi acciuffa e mi riporta a casa, ancora una volta.

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