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La civiltà istriana ha 2000 anni. Per questo merita il Museo (Il Piccolo 02 ott)

Se la lettera di Claudia Cernigoi, pubblicata sul Piccolo del 27 settembre, aveva l’intento provocatorio di compattare tutte le componenti che fanno parte dell’Irci e che sono talvolta in disaccordo, come risulta da alcuni scritti pubblicati di recente anche dal giornale, posso dire che è riuscita nell’intento. Scrivo, infatti, da Senigallia (dal 59° Raduno nazionale dei dalmati), e non descrivo la reazione di molti amici provenienti da tutto il mondo che hanno letto il Piccolo, fatto circolare dai dalmati triestini, registrando un’unanime condanna.

 

Con la massima serenità ritengo di poter rispondere alle molte affermazioni inesatte della Cernigoi e, nello specifico: 1) Perché è stato scelto per il nostro Museo il termine “civiltà” e non “cultura”? Si è dibattuto, molti anni fa, sul nome da dare al museo, e le opinioni oscillavano tra la parola “cultura”, che sembrava più modesta e attuale, e quella linguisticamente più corretta di “civiltà”. È stato decisivo l’intervento, a mio mezzo, del professor Aldo Duro, non tanto in veste di zaratino quanto in quella di massimo conoscitore della semantica, di direttore dell’Enciclopedia italiana Treccani e di autore dell’apprezzato Dizionario della lingua italiana, che ha dissipato ogni dubbio: l’espressione “cultura”, che nella lingua tedesca comprende un po’ tutte le espressioni in cui si articola la vita di un popolo, non ha uguale significato nella lingua italiana.

 

La cultura si limita a includere le espressioni letterarie, filosofiche e artistiche di un popolo ma esclude musica, folclore, gastronomia, usi, costumi e quant’altro rientra, invece, nel concetto più altisonante ma corretto di civiltà. 2) Quando nel Museo si documentano le stragi dei “druzi”, non si fa riferimento – come tentò di fare Tito e alcuni suoi epigoni locali – all’intero popolo jugoslavo, ma solo ai comunisti jugoslavi, perché la parola “druzi” significa “compagni” e si riferisce, dunque, solo ed esclusivamente ai comunisti e non agli altri cittadini jugoslavi che furono, al pari degli italiani, vittime della ferocia scatenata da questa ideologia non solo in Istria, Fiume e Dalmazia ma anche nel resto dell’ex Jugoslavia.

 

Ritengo, anzi, che le nuove Repubbliche di Slovenia e di Croazia abbiano fatto bene a prendere le distanze dalle stragi comuniste jugoslave di Tito, com’e dimostrato dal fatto che collaborano sinceramente al ritrovamento e all’individuazione delle salme italiane, ma anche croate, slovene, bosniache, serbe eccetera. 3) È corretto parlare, quando si fa riferimento alle stragi del 1943-1945, di foibe. Hanno destato lugubre ilarità alcune affermazioni di noti assassini che protestavano: “non ho infoibato Tizio e Caio, li ho strangolati!”. È vero che non tutte le morti delle persone assassinate prima ma soprattutto dopo la guerra dai comunisti jugoslavi di Tito (per determinare e accelerare l’esodo degli italiani) non sono avvenute attraverso l’infoibamento.

 

Ad esempio, nella Dalmazia sono state rinvenute poche foibe e la maggioranza della gente è stata annegata in mare, gettata da una rupe, strangolata, accoltellata, impiccata, fucilata, sgozzata, fatta sparire o uccisa in altri modi barbari. Si è usata, come avviene da sempre, la pars pro toto e quindi queste vittime si chiamano “infoibati”, senza dover ogni volta specificare o catalogare il modo con il quale siano stati eliminati. Quanto ho scritto riguarda tutti gli esuli ma – mi si consenta di rivendicare con il legittimo orgoglio di italiano – che la componente italiana della Dalmazia vanta una civiltà di duemila anni, che ha dato a Roma un imperatore come Diocleziano e altri 32 imperatori meno noti, alla Chiesa numerosi uomini come San Girolamo, traduttore delle sacre scritture, tuttora fondamento della messa cattolica ma anche di quella ortodossa, e due papi, San Caio e Giovanni IV, che la Chiesa cattolica attribuisce alla nazione dalmata, letterati come Niccolò Tommaseo (autore del primo Dizionario della lingua italiana), Francesco Fortunio (autore della prima Grammatica italiana), Gianfrancesco Biondi (autore del primo romanzo della lingua italiana), Ruggiero Boscovich che misurò per primo la distanza tra la Terra e la Luna, Benedetto de’ Cotrugli, inventore della partita doppia… E faccio grazia ai lettori degli altri 3500 nominativi di dalmati illustri che ho appena finito di elencare e qualificare in un libro che sarà in distribuzione a breve. Basterebbe questo per giustificare la parola “civiltà”, anche nel senso improprio della Cernigoi, senza contare dell’altrettanto grande tradizione di uomini illustri dell’Istria e di Fiume.

 

Renzo de’ Vidovich

“Il Piccolo” 2 ottobre 2012

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