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Jergovic: ex Jugoslavia ancora senza libertà (Il Piccolo 27 set)

di AZRA NUHEFENDIC

Gli scrittori Miljenko Jergovic bosniaco/croato, e Marko Vidojkovic, serbo, hanno fatto un viaggio percorrendo i luoghi storici dell’ex Iugoslavia. Il risultato è stato un documentario, uno sguardo ironico sullo stato dei Balcani, che è stato presentato all’ultima edizione del Sarajevo Film Festival. Lo ripercorriamo in sintesi con questa intervista concessa al ”Piccolo” da Miljenko Jergovic.

Nella ex Jugoslavia “La politica” è stata un mestiere pericoloso e, nonostante i cambiamenti, lo è tuttora. Lei è d’accordo con quest’affermazione?

«La nostra esperienza balcanica è la seguente: la politica è pericolosa per tutti, tranne che per i politici stessi. Negli ultimi vent’anni – da quando a noi jugoslavi è rovinato sulle teste il Muro di Berlino e i nazionalisti hanno sostituito i comunisti – abbiamo vissuto soltanto un attentato politico, quello al presidente serbo riformista Zoran Djindjic. Nello stesso tempo, durante la guerra civile, come forma più radicale di politica, in Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Serbia, Kosovo e Macedonia, sono state uccise pressapoco duecentomila persone. Tutti, proprio tutti, hanno perso la vita a causa della politica. Per dirla tutta, in contrasto con alcune convinzioni radicatesi in Occidente, le guerre nei Balcani non sono state affatto dei caotici scontri di tipo tribale e religioso, ma si è trattato di una ben organizzata e precisa ”gestione politica”. Naturalmente, quella politica è stata una politica nazionalistica. Pure fascista, nel senso più classico di questo termine. Talvolta pure nazional-socialista. Ma si trattava sempre e soltanto di politica».

Negli Stati dell’ex Jugoslavia non ci sono più i prigionieri politici, ma le grandi democrazie li esportano nei “paesi banana”, dove aprono carceri segrete. È sorpreso o deluso da ciò?

«In via di principio, penso che dovremmo insistere sulla precisazione di questo enunciato. Quando Lei parla dell’esportazione dei reclusi politici da parte delle “grandi democrazie”, si riferisce senza dubbio a quello che tuttora fanno gli Stati Uniti nella loro cosiddetta guerra contro il terrorismo. Io, invece, penso che tutti i loro istituti di pena, da quelli noti come lo è stato Abu Graib a Baghdad, oppure come lo è tuttora Guantanamo a Cuba (Obama mentiva dicendo che l’avrebbe chiuso), nonché molti altri dei quali ignoriamo il nome o addirittura l’esistenza, non vanno chiamati carceri».

In che senso?

«Vale a dire, in carcere può trovarsi un uomo condannato per un misfatto, oppure uno che deve ancora essere condannato, il carcere è sito sul territorio dello Stato che su questo condannato applica le proprie leggi, e queste leggi implicano anche determinati diritti dei reclusi. A Guantanamo non esiste nulla di tutto ciò, né ad Abu Graib c’era, e chi sa in quanti altri luoghi simili al mondo. Per questo motivo è corretto dire che Guantanamo è un campo di concentramento, amministrato dagli Usa. Naturalmente, mi spaventa il fatto di sapere che gli americani avevano fondato campi simili sul territorio dell’Europa dell’Est, e sinceramente rimango sconcertato dal fatto che simili Lager siano possibili anche sul territorio della ex Jugoslavia».

Dappertutto, nei Paesi della ex Jugoslavia, la libertà d’informazione è in grave pericolo, e la situazione sembra ancor peggiore di quella che fu durante la guerra. Perché è così?

«Prima di tutto, in questi Paesi non esiste una tradizione basata sulla libertà di pensiero e di parola. Di conseguenza i cittadini non vivono la non-libertà d’oggi in modo eccessivamente drammatico. In Jugoslavia era in vigore una forma di socialismo cosiddetto ”morbido”, quello di Tito, il quale, soprattutto nella sua ultima fase nei tardi anni Ottanta del ’900, aveva permesso la libertà di parola pubblica; cosa che purtroppo, negli Stati formatisi dopo la dissoluzione della Jugoslavia, non sarà mai più realizzata. Allora il problema non va ricercato nel precedente deficit di libertà, bensì nel fatto che negli ultimi venti anni ci siamo abituati a vivere senza libertà. Una cosa si deve sapere: il nazionalismo, come pure la destra populista, escludono anche l’idea di libertà di stampa e della creazione artistica. Si tratta, dunque, di un nostro problema interno. Ma ne esiste pure uno esterno. Negli anni Novanta, quando in Croazia era al potere il regime nazionalista e pro-fascista di Franjo Tudjman, gli occhi dell’Europa e del Mondo erano tutti fissati su di noi. Non appena Tudjman minacciava i giornalisti, lo State Department minacciava lui di sanzioni economiche. Oggi non c’è più nessuno a sorvegliare lo stato di cose delle libertà croate, e il risultato è paradossale: la libertà di stampa si trova al livello più basso possibile, mentre i giornalisti sono costretti all’autocensura ancor più che ai tempi di Tudjman».

Il Presidente croato Josipovic ha fatto un gesto poco consueto per i Balcani. In Bosnia Erzegovina si è inchinato dinanzi alle vittime e ha chiesto scusa ai sopravvissuti. È stato immediatamente attaccato…

«Il Presidente Josipovic è stato attaccato dalla destra tudjmaniana con a capo il primo ministro Jadranka Kosor, e sarebbe esagerato affermare che è stato attaccato dall’intera opinione pubblica croata. Addirittura si potrebbe affermare che la gran parte dei cittadini lo ha sostenuto nel suo gesto di pubbliche scuse per i crimini commessi in nome della Croazia in Bosnia Erzegovina. Nel 1993, sotto il comando di Franjo Tudjman e con lo scopo di dividere la Bosnia Erzegovina, la Croazia ha compiuto un’aggressione alla Bosnia stessa. Nel corso di quest’aggressione una parte dei croati bosniaci è stata strumentalizzata, ma ad essa, comunque, ha partecipato pure l’Esercito croato. Questa aggressione, grazie alle pressioni americane su Tudjman, è terminata nel febbraio del 1994, con l’accordo di Washington, firmato da Alija Izetbegovic e da Franjo Tudjman. Va detto che in quella guerra anche i musulmani commisero molti crimini verso la popolazione civile croata, ma questi fatti non cambiano la natura dell’aggressione compiuta».

È in corso il processo a Radovan Karadžic, accusato per crimini di guerra. Spesso, s’insiste che tutti sono parimenti colpevoli, e, di conseguenza, i loro leader Alija Izetbegovic, Slobodan Miloševic e Radovan Karadžic. È d’accordo?

«Naturalmente è un’opinione errata. Si sa molto precisamente – ed è possibile farlo in modo ancor più preciso – individuare le responsabilità individuali. Il primo posto lo occupa Slobodan Miloševic. Lui è stato il vero boia dei Balcani e della Jugoslavia. Il secondo posto è occupato da Franjo Tudjaman. Lui era il fratellastro del boia. La sua colpa è terribile ma, pur tuttavia, diversa e minore di quella di Miloševic. Tutti gli altri erano soltanto dei loro ”garzoni”. Per quanto riguarda Alija Izetbegovic, su di lui ho un’opinione differente. Lui non era un criminale, non auspicava il crimine e non l’ha mai sostenuto. Tra l’altro, a Sarajevo durante la guerra, dove la sua dimensione multiculturale veniva mantenuta, Izetbegovic era il suo sovrano. Dopo di lui, a capo dei musulmani nel periodo postbellico, è venuto Haris Silajdžic, ministro degli esteri di Izetbegovic durante la guerra, ma con degli ideali che si avvicinano, per così dire, piuttosto a quelli di Tudjman, e durante il suo periodo Sarajevo si è trasformata in una città omogenea. Alija mi rimarrà caro per sempre, benché non condividessi le sue idee politiche oppure le visioni del mondo».

 

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