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Italiani e slavi, identità divise (Il Piccolo 04 ago)

di ROBERTO SPAZZALI

La storia del confine orientale continua ad appassionare e a produrre studi e testi di spessore e finalità diverse. A distanza di pochi anni dall’impegnativo lavoro di Marina Cattaruzza, la casa editrice Il Mulino propone ora quello di Rolf Wörsdörfer, ”Il confine orientale. Italia e jugoslavia dal 1915 al 1955” (pagg. 454, euro 35,00), edizione in lingua italiana, curata da Marco Cupellaro, del testo ”Krisenherd Adria 1915-1955. Konstrukion und Artikulation des Nazionalen im italianisch-jugoslawischen Grenzraum”, pubblicato nel 2004 da Verlag Ferdinand Schöningh. Chi ha un po’ di dimestichezza con il tedesco si renderà conto che l’attenzione di Wörsdörfer è concentrata principalmente sul motivo di costruzione e articolazione dell’idea di “generalità”, identità, in un territorio di confine, per cui il titolo proposto da Il Mulino appare subito generico quanto fuorviante. E infatti il lettore che voglia trovare nel libro di Wörsdörfer una sintesi dei molti problemi politici, diplomatici, militari sorti attorno alla questione del confine italo-jugoslavo e più in generale dell’Adriatico nord-orientrale, resta deluso. Wörsdörfer si occupa prevalentemente della contrapposta edificazione identitaria tra Italiani e Slavi o meglio tra “italianità” e “jugoslovenstvo”, dedicando ad essa cinque capitoli di varia intensità e profondità.

Il metodo adottato è lo studio comparativo tra fonti, testimonianze e storiografia italiana, slovena e croata: metodo, vigente da tempo in diversi settori della ricerca storica, però ancora poco praticato in Italia, che quando ben dominato permette di spaziare in modo ampio e di operare confronti tra fenomeni ed aree apparentemente diverse; una sorta di approccio laico alla storia, fuori dai pregiudizi e dai condizionamenti di ordine ideologico o solo di adesione morale a una o l’altra parte. Il fatto che l’autore è tedesco di nascita e formazione – insegna storia contemporanea presso la Tecnische Universität di Darmastadt con all’attivo diversi studi sul movimento operaio – dotato di buona conoscenza dell’italiano oltre che di sloveno e croato, gli permette di operare da un “terzo” punto di vista, con intuitivi confronti tra le dinamiche che hanno portato alla formazione dell’idea di nazione lungo l’Adriatico orientale e quelle generate nell’area medio europea e più specificatamente lungo il profondo limes slavo-tedesco. Infatti i primi capitoli, dedicati ai processi di rappresentazione e identificazione di italiani e slavi, sono sicuramente i più convincenti, quelli meglio dominati e che portano l’autore ad affermare che almeno fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale i movimenti nazionali italiano e slavo avevano tratti speculari e un’origine comune nel mito del Risorgimento italiano, però ben presto caratterizzato nel mondo degli Slavi del sud dal dualismo tra il progetto jugoslavista e l’affermazione della coscienza nazionale croata.

Dopo il 1918, con la vittoria dell’Italia, mentre il processo irredentista per gli Italiani si poteva considerare concluso, con il confine disteso dalle Giulie al Quarnero e la rinuncia della Dalmazia, per Sloveni e Croati, inseriti nel contesto del nuovo regno jugoslavo a guida serba, si apriva una stagione irredentista fondata tanto sulla propaganda revisionista dei confini degli intellettuali fuoriusciti dalla Venezia Giulia quanto da vere e proprie strutture e organizzazioni clandestine e palesi pronte a rispondere con la lotta armata alla politica di snazionalizzazione avviata dal fascismo nella regione. Wörsdörfer rileva come da parte italiana si formò e consolidò l’identità nazionale per mezzo del mito della Vittoria e più ancora con l’irredentismo ormai declinato al nazionalismo, con l’uso pubblico del passato transitante dalla venezianità adriatica (irredentismo) alla romanità mediterranea (imperialismo) che doveva giustificare e promuovere le nuove mete del regime e pure la politica assimilatrice delle minoranze comprese nei nuovi confini statali. Dove non fu possibile, come in Alto Adige e nel Tarvisiano per gli autoctoni tedeschi si favorì l’opzione per lo Stato vicino, che dal 1938 fu il Terzo Reich.

Per gli Slavi della Venezia Giulia si prospettò l’assopimento degli alloglotti e l’isolamento degli allogeni, così come le due definizioni volevano intendere e distinguere affidabilità e lealtà. Nel mondo sloveno e croato avvenne qualcosa del genere con il culto dei miti storici, la coesione nazionale davanti alla minacce pangermanica, italiana e centralistico-serba, da cui la formazione di organizzazioni solo apparentemente sportive e ludiche, come il “Sokol” che ebbero un ruolo determinante nel sostegno della causa slovena durante la crisi carinziana e poi nell’adesione ai movimenti di liberazione durante la Seconda Guerra Mondiale. Parimenti la costituzione di istituti per la difesa delle proprie minoranze all’estero rivestì un ruolo indiscutibile nel promuovere l’immagine di popoli oppressi e quindi di raccogliere solidarietà e consenso tra le organizzazioni pacifiste e presso la Società delle Nazioni.

Rolf Wörsdörfer osserva pure che l’irredentismo italiano aveva abbandonata la sponda democratico-mazziniana (salvo pochi individuali casi) per diventare strumento del fascismo, mentre quello sloveno croato si era orientato sulle posizioni dell’antifascismo internazionale senza rinunciare al programma rivendicativo e revisionista. Però entrambi i movimenti aderirono alla visione di “nazione titolare” (secondo la definizione di Holm Sundhaussen) ovvero la combinazione tra il concetto tedesco di popolo e quello francese di Stato centralizzato. Tali visioni, prodotte da una precedente guerra totale che aveva generato un nazionalismo totale (Claus Gatterer), risultavano incompatibili e l’urto fu inevitabile.

Fin qui il lavoro di Rolf Wörsdörfer è convincente ma quando egli affronta la questione all’interno della Seconda Guerra Mondiale, il discorso si fa meno sicuro. Per esempio la componente italiana improvvisamente scompare, o meglio è presente solo nella trasfigurazione politica del Partito Comunista alle prese con i propri compagni sloveni e croati, al più è presente nella questione dei rapporti in seno alle brigate “Garibaldi”, dopo il passaggio agli ordini del IX Corpus sloveno, e nel difficile rapporto tra Garibaldini e Osovani, culminato con l’eccidio di Porzus. Non accenno all’azione politica del CLN a Trieste e in Istria, dove possibile, a incanalare le giovani energie nella direzione di un rinnovato patriottismo democratico neorisorgimentale in grado di salvare ciò che non era compromesso nella Venezia Giulia, e tanto meno alcun riferimento a quegli Italiani che, in nome dell’italianità, decisero di prendere le armi a fianco dei nazisti. Una scelta non molto diversa di Sloveni e Croati che scelsero di battersi per la propria identità schierandosi altrettanto contro i partigiani di Tito. Così la fase della presenza effettiva del Terzo Reich sull’Adriatico e il recupero manipolato della Mitteleuropa, nonché i suoi progetti sull’intera regione in relazione alle popolazioni locali non presentano particolari riscontri nell’opera. Di fatto non c’è nemmeno un accenno all’insurrezione del 30 aprile 1945 che tanta parte ha avuto sulle sorti di Trieste mentre non è vero che la Wehrmacht si ritirò dalla Venezia Giulia ma fu costretta alla resa dalle forze jugoslave o anglo-americane nei principali capisaldi.

Gli ultimi due capitoli dedicati alla “guerra partigiana e nazionalizzazione” e dalla “fine della Seconda Guerra Mondiale ai primi anni Cinquanta” non sono esemplari, se si esclude una ricostruzione piuttosto precisa della famigerata Ozna e dei suoi compiti repressivi. Mi sembra eccessivamente sociologico e non storico leggere, rispettivamente, le stragi del 1943 e del 1945 come il “culmine della totale disgregazione di una sociale multietnica”, provocata principalmente dalla snazionalizzazione fascista: l’autore non spiega e non si domanda le ragioni della duplice persecuzione nazista e titoista della resistenza italiana che non potevano risiedere solo accanimento anti italiano. Lo stesso discorso può essere fatto per la sommaria lettura dell’esodo: nulla aggiunge a quanto già noto se non alcune considerazioni sulla politica di sventagliamento degli esuli e sul fatto, sicuramente rilevante, che nei territori ceduti e nella zona B snazionalizzazione ed esodo procedettero parallelamente a danno della popolazione italiana con gli esiti noti a tutti. Sono a mio parere fuori luogo il giudizio di “democrazia sui generis” attribuito all’Italia repubblicana come la grossolana valutazione sulla politica triestina degli anni Sessanta, ovvero l’esperienza del centro-sinistra interpretata quale una coalizione italo-slovena che getterà i presupposti favorevoli alla conciliazione “sul litorale” (p. 287), quindi prodromo del Trattato di Osimo il quale, secondo l’autore, «pose i rapporti tra i due vicini adriatici su solidi basi che hanno costituito uno dei presupposti del presente lavoro».

Purtroppo i frequenti scarti interpretativi sono prodotti dalle fonti utilizzate e dalla loro qualità che andava attentamente ponderata. Si può tracciare una curva gaussiana in relazione alle disponibilità di fonti e la possibilità concreta di costruire anche solo alcune dinamiche fattuali. E il risultato non è nemmeno scontato. Così il contributo di Wörsdörfer risulta più focalizzata su Trieste e meno sull’intera regione e risente la qualità delle fonti prese in esame, soprattutto quando si tratta di documenti destinati a uffici ministeriali e di partito oppure autobiografie non sempre disinteressate. La comparazione per essere efficace deve accompagnarsi all’interpretazione e non solo presentare l’equidistanza dell’autore.

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