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Isola Calva, inferno nel nome di Tito (Corriere della Sera 12 giu)

di PREDRAG MATVEJEVIC

 

Isola Nuda, la chiamano gli slavi.  Isola Calva, dicono gli italiani d'Istria. Il libro di Dunja Badnjevic,  pubblicato nei tipi della Bollati Boringhieri, sceglie per titolo la prima denominazione per indicare questo tragico luogo collocato ai confini del Quarnero. Un isolotto roccioso e di difficile accesso, che non va dimenticato dalla storia. Ne hanno parlato, anche recentemente,  Claudio Magris nel suo romanzo Alla cieca (Garzanti) e Enzo Bettiza nel Libro perduto (Mondadori). Giacomo Scotti, scrittore della minoranza italiana di Fiume, le ha dedicato vari articoli e un libro. Era un vero gulag, «una Kolyma jugoslava», dice la Badnjevic: là suo padre, partigiano e comunista, trascorse più di quattro anni, incarcerato dai

suoi compagni di lotta e di Resistenza.

Per comprendere meglio queste vicende è utile ricordare alcuni eventi del XX secolo. Nel corso della prima riunione di una sorta di nuova internazionale comunista, il Cominform, che ebbe luogo nel 1947 in Polonia, i rappresentanti jugoslavi, Kardelj e Djilas, si assunsero (per ordine diretto di Stalin) l'incarico di criticare i compagni italiani e francesi per «opportunismo ». Erano presenti alla riunione Longo, Reale, Duclos e altri membri dei vari Comitati centrali. Il maresciallo Tito, considerato il maggior protagonista della Resistenza, sembrava allora più apprezzato di Togliati o di Thorez. Solo un anno dopo, nella seconda riunione a Bucarest, questo potenziale rivale di Stalin nel movimento comunista doveva invece divenire obiettivo di atroci accuse e durissimi attacchi. Fu la grande divisione del movimento operaio internazionale. L'accusa più grave fu quella di un «rigurgito di trozkismo». Quella rottura brutale fu percepita da noi, in Jugoslavia, come la prosecuzione della seconda guerra mondiale o una nuova guerra.

L'Armata rossa era alle frontiere del Paese in attesa dell'ordine di superarle. Tito seppe resistere e difendere la sua via autonoma, quella via che Togliatti cercava di difendere ancora agli inizi del '47 e che doveva invece rinnegare scrivendo la risoluzione del Cominform contro la Jugoslavia. Nel partito comunista jugoslavo erano tutt'altro che rari i filosovietici, convinti che la loro organizzazione dovesse essere una armata internazionale guidata dall'Unione sovietica. Ebbero così inizio le «purghe», in primo luogo all'interno dell'apparato dello Stato e del partito. Molti membri che occupavano ruoli importanti nelle istituzioni furono sostituiti e gettati in prigione. Nel conflitto con lo stalinismo si fece ricorso agli stessi metodi staliniani. Goli Otok sull'Adriatico settentrionale — l'Isola «nuda» o «calva» — divenne il gulag jugoslavo.

Esref Badnjevic, il padre dell'autrice, uno dei primi partigiani insorti nel 1941, ex ambasciatore della Jugoslavia per il Medio Oriente, non volle rinnegare le proprie convinzioni. Si rese presto conto che «non c'era posto per il dubbio. Ci si doveva

dichiarare: pro o contro. Non esistevano più la solidarietà,  l'amicizia, la discussione fraterna», mancava la capacità di mantenere anche nelle situazioni più difficili della guerra partigiana il rispetto delle diverse opinioni. «Se non ti riconoscevi nella linea del

partito eri un traditore… Solo ieri eravamo soldati in lotta per la stessa causa», scriveva il vecchio partigiano.

Così cominciò il suo calvario. Appena approdato sulla sponda dell'isolotto, fu accolto con

«una gragnola di calci, pedate, pugni, sputi». La «rieducazione» doveva essere lunga e severa. Il cosiddetto «boicottaggio» si praticava in modo feroce. Si dovevano spaccare durante tanti giorni grossi blocchi di pietra per poi buttarli in mare. Un lavoro di Sisifo. «Sento i colpi su tutto il corpo e non so da dove mi venga la forza di resistere». Non

tutti riuscivano a sopportare un simile trattamento. O si suicidavano o morivano per le atrocità subite.

Esref Badnjevic riuscì a resistere come aveva resistito prima alle persecuzioni naziste. Quando ne uscì scrisse una specie di diario. Sua figlia, autrice di questo libro, l'ha utilizzato nel migliore dei modi. Ha alternato le testimonianze crude di suo padre ai ricordi della propria infanzia — spezzata da quell'improvvisa irruzione notturna della polizia che doveva portarle via il genitore e distruggere la vita della sua famiglia — ai pensieri e alle riflessioni anche su tempi più recenti. Ne risulta un racconto autentico e struggente. L'alternanza dei due percorsi produce, quasi inaspettatamente, uno straordinario effetto letterario. Da una parte il percorso della grande Storia con la sua tragedia collettiva, dall'altra il piccolo vissuto quotidiano dei dolori e delle angosce familiari.

Nel gulag dell'Isola Nuda finirono anche molti comunisti provenienti dall'Istria o dall'Italia stessa (particolarmente gli operai di Monfalcone) per collaborare alla «costruzione del socialismo». Pagarono così la loro fede in un mondo che ritenevano migliore.

Fino agli anni  Ottanta in Jugoslavia non si poteva scrivere su questo argomento.

Apparvero solo dopo la morte di Tito alcuni libri interessanti che abbiamo cercato di sostenere e divulgare, spesso senza successo. Mi sono talvolta chiesto se «misure» meno drastiche avrebbero potuto raggiungere lo stesso risultato — salvarci da Stalin e dagli staliniani. Ma ho talvolta rifiutato di porre queste domande, anche per l'amicizia nei confronti di coloro che avevano vissuto gli orrori dell'Isola e che avevano dimostrato un'onestà intellettuale e una coerenza, anche se mal riposte.

La narratrice, Dunja Badnjevic, sembra in alcuni momenti porsi domande simili e difficili. Vive da quarant'anni in Italia, è nata a Belgrado da un padre bosniaco e da una madre croata. Ha fatto conoscere in Italia alcuni tra i migliori scrittori jugoslavi. Ha curato le opere di Andric per i Meridiani della Mondadori. Ama il suo Paese, nonostante molti «conti aperti» e avverte ancora la ferita della sua dissoluzione. Ha inventato un neologismo che mi sembra renda l'idea: «apolitudine — una sorta di non appartenenza… di perdita dei luoghi geografici, di amici, di sogni, della memoria e, soprattutto, delle radici».

La conclusione è amara: «Mio padre è stato riabilitato il 24 gennaio 1990. Erano passati dieci anni dalla sua morte e quaranta dal suo primo arresto. Il Paese per il quale aveva combattuto e lottato oggi non esiste più».

 

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