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Il traguardo più maturo degli ultimi 90 anni (Avvenire 04 nov)

di CARLO SGORLON

Quando ero bambino, e poi adolescente, il IV Novembre era una giornata di duplice festa. Era il mio onomastico e il giorno in cui si celebrava la vittoria dell’Italia e dei suoi al­leati sopra gli Imperi centrali. La mia giovanis­sima età e il clima politico creato dal Ventennio faceva sì che sentissi la doppia festa con una particolare intensità. Le mie capacità di giudi­zio non mi permettevano di riflettere in modi maturi su ciò che v’era dietro l’armistizio di vil­la Giusti, e il testo di Armando Diaz, ossia il bol­lettino della vittoria. Quel testo era riprodotto in targhe di bronzo sotto le logge di tutti i munici­pi, accanto alla lastra di marmo che ricordava invece le «inique sanzioni» della Società delle Nazioni, perché l’Italia aveva attaccato e con­quistato l’antico impero di Etiopia.

Certo neppure oggi, dopo aver visto da vicino la seconda guerra mondiale, e dopo aver letto tan­ti libri e assistito a tanti film sulle grandi guerre, e su cento altre, potrei dimenticare ciò che si­gnificò per l’Italia il IV Novembre. Il nostro Pae­se aveva raggiunto finalmente i suoi confini na­turali, che già Dante aveva indicato più di sei se­coli prima che la nostra patria unificata fosse u­na realtà. Aveva conquistato Trento, Gorizia e Trieste. Il trattato di Saint Germain ci avrebbe assegnato anche la Dalmazia e l’Istria, dove si parlava, al­meno lungo le coste, veneziano. Fu una deci­sione quasi giusta perché appartenute alla Se­renissima in secoli lontani. Invece ingiustamente ci fu assegnato anche l’Alto Adige, di lingua te­desca.

La guerra dunque veniva considerata il quarto conflitto del nostro Risorgimento. Aveva svi­luppato l’effetto di creare uno spirito naziona­le, almeno in superficie. Aveva contribuito a far nascere un sentimento di fratellanza tra le clas­si popolari, che avevano supportato più delle altre i tremendi sacrifici della guerra. Ciò so­prattutto tra i soldati, i giovani delle campagne e dei quartieri popolari delle città, che erano sta­ti profondamente accomunati dalle esperien­ze crudeli e sanguinose delle trincee e degli as­salti.

Queste cose dicono gli storici, e certo non si pos­sono negare. Questo ripetono, più o meno, an­che gli uomini delle istituzioni, della politica e dell’esercito, accanto ai monumenti e alle lapi­di che ricordano i caduti. Non è possibile criti­carli. Ma da allora, dopo tanti decenni, per me e per molti il IV Novembre significa anche pa­recchie altre cose. Dopo due sanguinosissimi conflitti mondiali, noi europei abbiamo cam­biato radicalmente opinioni e sentimenti su quelle guerre, e sulla guerra in generale. Nessu­no, almeno nell’Europa occidentale, ritiene più che la politica, quando non riesce a raggiunge­re i suoi scopi, debba ricorrere alla violenza per conseguirli. L’opinione di Von Clausewitz è or­mai qualcosa di arcaico. A nessuno passa più per la mente che si debbano derubare altri po­poli dei loro territori, come riteneva l’imperia­lismo nazista e fascista, per aggiungere una pa­lata di gloria sporca alla propria storia.

Per me e per la stragrande maggioranza degli europei la guerra ormai è soltanto un cumulo di orrori; significa sangue, morte, distruzione, fame, persecuzione, paura, miseria. Tutti sap­piamo cosa accadde dopo la fine della prima guerra mondiale, per averlo letto nei libri e vi­sto in film e documentari. La gioia e la celebrai­zone del trionfo militare furono soffocate qua­si del tutto da avvenimenti tragici e imprevisti.

Dunque noi cittadini, che non abbiamo obbli­ghi di natura rappresentativa e istituzionale, dobbiamo ricordare o celebrare ancora, dopo vent’anni, il IV Novembre? Non significa rievo­care una sterminata tragedia, e rinverdire in­sofferenze e urti tra le nazioni allora nemiche? Questo pericolo ormai è ridotto pressoché a nul­la. Ma il IV Novembre deve significare soprat­tutto il ricordo dei morti. Nella notissima scali­nata di Redipuglia riposano le salme di cento­mila soldati; a Oslavia, presso Gorizia, ve ne so­no sessantamila. A Udine, nel piazzale XXVI Lu­glio, v’è un tempio-ossario che raccoglie i resti di altri trentamila caduti. Dobbiamo ricordare questi giovani sfortunati, cui la guerra impedì di vivere normalmente, le cui vite furono tronca­te violentemente nell’età migliore e più ricca di speranza. E il IV Novembre è anche il giorno del­le Forze Armate, cui oggi tutti si sentono legati, compresi tantissimi pacifisti. Esse infatti sono un’istituzione che garantisce ordine, pace, dife­sa, a noi e persino ad altri popoli, anche lonta­ni, purtroppo tuttora invischiati in tragici con­flitti con i propri vicini, o divisi all’interno da guerre civili o tribali.

 

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