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Il Piccolo – 290407 – Intervista a Mila Schön, dalmata di Traù

Mila Schön: «Ho nostalgia di Trieste e critico la moda che va di moda»
di Arianna Boria

Da cinquant’anni il suo nome è sinonimo di rigore, pulizia, sartorialità. L’hanno sempre chiamata la «signora dello stile», per quell’eleganza asciutta, senza fronzoli e senza tempo, che ha conquistato alcune delle donne più famose e più ben vestite del mondo. Mila Schön è una sorridente signora di 88 anni, che ha scritto un capitolo importante della moda italiana. Sentirla raccontare è come aprire uno scrigno magico, da cui escono i personaggi, gli incontri, i protagonisti di quella straordinaria avventura che fu la nascita del «made in Italy», quando l’arte del vestirsi aveva un che di silenzioso, rituale e iniziatico.
Singolare terra di talenti sartoriali, la Dalmazia, che ha dato alla storia della moda italiana due delle sue griffe più note nel mondo, Mila Schön e «Tai» Missoni. Mila, al secolo Maria Carmen Nutrizio, nasce infatti nel 1919 a Traù, un anno dopo la caduta dell’impero austro-ungarico. Il padre è farmacista e proprietario terriero, la mamma una Luxardo del maraschino di Lussinpiccolo, il fratello Nino diventerà giornalista e sarà fondatore e per lunghi anni direttore del quotidiano milanese «La Notte». Dalla Dalmazia, che lascia a tre mesi con la famiglia, si trasferisce a Trieste, in una casa del centro storico, dove vive e studia fino a diciott’anni.
Alla moda, Mila Nutrizio arriva per gusto e classe innati, ma soprattutto con un’incrollabile determinazione. Dopo il rovescio finanziario che colpisce l’attività del marito, il commerciante di preziosi Aurelio Schön, veneto di origini autriache, comincia a disegnare abiti per le sue amiche, ricche  signore della borghesia milanese.
Nel 1958 apre un piccolo atelier, sette anni dopo, nel ’65, il marchese Giovanni Battista Giorgini,  ’inventore della moda italiana, la invita a debuttare sulle prestigiose passerelle fiorentine del pret àporter di Palazzo Pitti, nella leggendaria Sala Bianca. La sua è una collezione tutta violetta, dal lilla al glicine, venticinque sfumature diverse, che conquista l’attenzione internazionale. «Quella di Mila Schön è vera alta moda: autentica, splendida, perfetta», commenta Giorgini.
Famosa per i suoi double-face («l’intransigenza con cui concepisco un interno uguale a un esterno è una mia cifra»), per gli abiti da sera con inserti geometrici, per le gonne a pieghe «baciate», per gli stupefacenti ricami, nel ’66 Mila Schön conquista l’America, dove le viene conferito il Neimann Marcus Award, l’Oscar della moda per il colore, ed è la prima stilista italiana a sbarcare in Giappone.
Di lei, la segaligna sacerdotessa della moda americana Diana Vreeland, dice: «La sua linea, in apparenza spoglia ma preziosa, ingentilisce tutte le donne». Una sera, a un grande ballo all’hotel Plaza  i New York organizzato da Truman Capote, la signora giudicata più elegante è Marella Agnelli, in Mila Schön, al terzo posto si classifica Lee Radzwill, sorella di Jackie Kennedy, anche lei fasciata da un modello Schön.
Abiti, accessori, profumi, pelletteria, piastrelle. Negli anni d’oro la griffe diventa un piccolo impero.
Poi, nel ’93, dopo un periodo di crisi, la cessione al colosso giapponese Itochu, che lascia comunque la parte creativa sotto il controllo della fondatrice. Oggi è il gruppo Mariella Burani a detenere la licenza del marchio, in base a un accordo con l’Itochu che si concluderà anticipatamente nell’autunno-inverno 2008. Mila Schön si è ritirata da anni, ma la voglia, l’entusiasmo di vestire le donne le sono rimasti nel cuore.
Nel 1990 i cronisti giuliani le hanno assegnato il «San Giusto d’oro».

Signora Schön, che immagini conserva della sua terra?

«Non ho ricordi visivi del periodo che ho vissuto in Dalmazia, perchè ero molto piccola quando sono andata via. I miei ricordi sono legati ai racconti dei miei familiari, anche se, in seguito, ci sono tornata in altre occasioni. La mamma, mio fratello ed io, siamo partiti su una nave da guerra comandata dall’ammiraglio Millo. Abbiamo lasciato la Dalmazia con una federa e poche corone…».

Poi l’arrivo a Trieste…

«Ci siamo stabiliti in via San Michele, in una casa con un bellissimo giardino. Anche se nata in Dalmazia, sono diventata subito cittadina italiana, perchè mio papà aveva votato per l’Italia, quindi io e tutta la mia famiglia siamo stati nominati cittadini italiani ad honorem. Avevo e ho tuttora un carissimo amico a Trieste, il professor Paolo Budinich, fisico nucleare a Miramare. Sono ancora in contatto con lui, anche se ultimamente è da un po’ di tempo che non lo sento».

Che ricordo ha della città?

«Ricordo Trieste con malinconia e gioia allo stesso tempo. Ricordo che andavo a suonare il piano da una vicina e ricordo il grande giardino della casa in cui abitavo: era molto bello. Ricordo anche che in seguito, una volta in cui ho avuto occasione di tornare, ho visto che al suo posto era stata costruita una casa. Allora ho pensato: lo ricompro e lo faccio diventare di nuovo un giardino, il ”mio” giardino. Da Trieste, mi sono trasferita con la mia famiglia a Genova, dove ho vissuto per cinque anni, perchè mio papà dirigeva una farmacia a Pegli».

Poi un altro spostamento, Milano.

«Nel 1940 mio fratello Nino Nutrizio fu nominato direttore de ”La Notte” a Milano. Allora mi ci sono trasferita anch’io, insieme a mia mamma. In questo periodo lavoravo in un’azienda farmaceutica, sia per occupare il tempo, sia per non pesare economicamente sulla famiglia. Durante la guerra, a Novara dove eravamo sfollati, mi sono sposata. Ricordo che erano le sei di sera. Colui che è diventato mio marito voleva sposarmi al più presto, senza aspettare che la guerra finisse. Dopo tre anni ho avuto la gioia di avere un bambino, mio figlio Giorgio, che è il grande amore della mia vita».

Come l’è venuta l’idea di occuparsi di moda?

«Per varie ragioni, dopo dodici anni di matrimonio, mi sono divisa da mio marito. Lui aveva avuto difficoltà nel suo lavoro e ho capito che non si sarebbe più ripreso. Eravamo abituati a un tenore di vita molto alto e mi preoccupava l’avvenire di mio figlio. Siccome non avevo introiti e non volevo pesare solo sui miei, ho pensato che le conoscenze che avevo e soprattutto l’esperienza dei tanti viaggi fatti in tutto il mondo, avrebbero potuto aiutarmi a ”trovare” un lavoro. Anche per questo scelsi la moda».

Lei non sapeva nè tagliare nè cucire…

«Ma avevo doti personali: il senso del colore e delle proporzioni, il gusto. Ero abituata ad andare nelle grandi sartorie, spinta da mio marito che voleva che indossassi sempre abiti nuovi. Andavo spesso a Parigi. Il mio preferito era Balenciaga e alle prove avevo sempre qualcosa su cui fare osservazioni: sull’attaccatura delle maniche, per esempio, o su un taglio. Insomma, si capiva che avevo il senso delle proporzioni».

Per chi creava i suoi modelli?

«Ho iniziato a poco a poco. Dapprima con l’aiuto della figlia di una modellista, in casa di mia mamma, ho cominciato a fare qualche abito. Poi ho preso con me una prèmiere, Enrica, che veniva da una grande modellista. Osservandola lavorare cercavo di imparare, perchè, quando parlavo con le mie sarte, volevo essere in grado di esprimermi correttamente in modo tecnico. E ho imparato, perchè sentivo che quando andavo in prova loro mi rispettavano tutte. Ho lavorato anche con duecentocinquanta sarte. Così ho iniziato a fare piccole collezioni, invitando le mie conoscenti».

Ricorda la prima?

«La prima presentazione importante fu al ”Continental” di Milano, insieme a una mia amica che faceva pellicceria. Era una collezione per l’inverno, stagione che io amo fra tutte. E’ piaciuta molto e questo mi ha dato coraggio».

Nel 1965, invitata da Giovanni Battista Giorgini, lei sfila a Palazzo Pitti.

«Era un momento molto triste, perchè nel novembre 1964 era morta mia mamma. Per me è stata una grande perdita. Ero disperata e ansiosa per il mio futuro, con un bambino piccolo ancora da crescere.
Proprio in quel momento Giorgini venne per invitarmi a Firenze. Ho accettato. Mi rimaneva poco tempo e ho fatto una piccola collezione che ha avuto un successo enorme. Mi ricordo che alla fine tutte le persone si sono alzate in piedi per applaudirmi. Mi sono commossa. E’ questa la sfilata, fra le tantissime che ho fatto in seguito, che ricordo nel modo più vivo e che considero la più importante per me in assoluto».

L’anno dopo lei sbarca in America. Come venne accolta la sua moda?

«Subito dopo la sfilata di Firenze, Neiman Marcus mi invitò a Dallas e a Houston. Una cosa che mi ha colpito e che ho trovato interessante in quell’occasione, è che dovevo spiegare alle vendeuses il mio stile, come vendere i miei abiti, come fare gli abbinamenti. Era una piccola lezione e mi colpì constatare come erano importanti per loro i miei consigli. Anche qui fu un successo, che mi portò sino a New York».

Mila Schön ha vestito alcune icone di stile…

«Tanti giornali mi richiedevano interviste e anche donne come Jacqueline Kennedy, Lee Radzwill, Ira Fürstenberg indossavano i miei abiti. Mi sentivo abbastanza sicura, anche se pensavo di avere sempre qualcosa da imparare. Le mie collezioni continuarono ad avere successo per anni e io giravo tutto il mondo. Ho fatto anche le divise per l’Alitalia, poi per l’Iran Air. E’ allora che ho conosciuto lo Scià Reza Palhavi e Farah Diba. Sì, posso dire di aver vestito tutte le donne più importanti del mondo e ho avuto con loro ottimi rapporti».

Quando si è accorta di aver sfondato?

«Quando sono arrivata al punto che per me esisteva solo il mio lavoro. Lavoravo fino a tardi la sera. Però non lo portavo mai a casa nei finesettimana, che trascorrevo dedicandomi ai miei quattro nipoti, che adoro. Lo lasciavo lì per poter ”lavare il cervello” in quei due giorni. Ripensandoci oggi, sento una grande nostalgia. Avrei dentro di me un desiderio enorme di ricominciare a lavorare e di dare, soprattutto a quelle donne che oggi per la strada non si vedono con approvazione».

Che cosa vuol dire eleganza per Mila Schön?

«Guardarsi allo specchio. Ogni donna ha la propria personalità e prima di comprare un abito deve capire se è giusto per lei. Una cosa è vedere un lavoro, perchè per me un abito è un ”lavoro”, e un’altra indossarlo».

Il «New York Times» ha definito di recente la moda italiana «volgare». E’ d’accordo?

«Forse non lo avrei detto, ma è abbastanza vero. Nella moda di oggi non c’è una linea definita. Nei negozi si trovano più o meno le stesse cose, più o meno preziose. Abiti molto carichi e troppo strani, con poco gusto. E’ una moda troppo urlata e generalizzata».

Che cosa farebbe indossare alla donna-simbolo di Mila Schön?

«Un cappottino a sigaretta. Un tailleur. Un tubino. Sbizzarrendomi forse un po’ di più per la sera».

Ha qualche rimpianto?

«Ho avuto tanti momenti belli nella mia carriera. Posso dire di non avere rimpianti. Forse il rimpianto più grosso è proprio per il mio lavoro: ricomincerei subito. Sono felice di averlo fatto. Mi ha chiesto tanto, ma mi ha anche dato tanto. E’ un rimpianto roseo».

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