Caro Signor Gervaso, quest'anno, se Dio vorrà, prenderò la licenza liceale. Mio padre, medico, desidererebbe che m'iscrivessi alla facoltà di medicina perché ha uno studio dentistico ben avviato e per me, e per la mia carriera, sarebbe tutto più semplice. Mia madre, laureata in matematica, preferirebbe che seguissi le sue orme. Io sono molto indeciso. Non perché la medicina e la matematica non mi appassionino, ma perché amo molto la storia. Ho letto quella d'Italia da lei scritta insieme con Montanelli, ma le confesso che il nostro passato lo conosco poco. L'epoca che più m'interessa è il Novecento, con una predilezione per la prima metà. Di tutti i personaggi che hanno fatto parlare di sé, il mio preferito è Gabriele D'Annunzio, forse perché nato, come me, a Pescara. Anche di lui so poco, quel poco che mi hanno insegnato a scuola. Le sarò grato (e glielo dimostro in anticipo scrivendo questa lettera con la vecchia stilografica ereditata da mio nonno), se mi parlerà dell'impresa più famosa del poeta: la conquista di Fiume.
Lazzaro Ferrante – Pescara
Gabriele d'Annunzio (con l'araldica minuscola, cui il "Vate" teneva molto, forse perché si chiamava Rapagnetta e a ribattezzarlo d'Annunzio era stato lo zio) fu, nel bene e nel male, uno dei più eleganti, eccentrici esibizionisti, brillanti, coraggiosi personaggi del suo tempo. Tempo che egli dominò come, in Inghilterra, lo dominarono Byron e il superdandy lord Brummell. Byron fu un grande poeta, ma anche un audace e generoso uomo d'armi; Brummell, un maestro di stile, che s'impose alla società vittoriana con l'insolenza del disinteresse. Amava più apparire che essere, e forse anche per questo finì in miseria. Quando la sua fama di poeta era ormai da tutti riconosciuta e quella di seduttore da tanti invidiata, "Gabri", come lo chiamavano gli amici e le amanti (ne ebbe a iosa), si scoprì uomo d'azione e di guerra. Nel maggio 1915, allorché l'Italia tradì, come al solito, i vecchi, storici alleati – l'Austria-Ungheria di Cecco Beppe e la Germania guglielmina -per schierarsi con l'Inghilterra e la Francia, il pescarese decise di arruolarsi volontario e di partire per il fronte. Compì gesta tanto più memorabili quanto più temerarie. Si guadagnò sul campo i galloni e il titolo di "Comandante", rivelando un coraggio leonino. Dove c'era il pericolo, c'era lui, il primo ad affrontarlo. In breve volgere di tempo diventò l'eroe, o uno degli eroi, della guerra. Portava sempre con sé, come portafortuna, un fallo di terracotta che mostrava con orgoglio alle signore, promettendo, alle più avvenenti, di esibire a richiesta, nell'intimità dell'alcova, l'originale, che chiamava "gonfalon selvaggio", e di cui andava giustamente fiero. Ci manca lo spazio per rievocare le missioni che lo resero celebre, e non solo in Italia. Spettacolare, il 10 febbraio 1918, l'affondamento di una nave asburgica, investita da un siluro sganciato dal motoscafo-antisommergibili di Luigi Rizzo, su cui il poeta si era imbarcato (l'episodio passerà alla storia come la "Beffa di Buccari"). Non meno clamoroso il volo su Vienna, il 9 agosto 1918. Gabriele aveva con sé due messaggi (uno, vergato per-sonalmente da lui stampato in cinquantamila copie; l'altro, in trecentocinquanta, portava, invece, la firma dell'amico Ugo Ojetti). Tradotto in tedesco, invitava la popolazione della capitale austriaca ad arrendersi. La guerra, come sai, o dovresti sapere, visto che stai per prendere la licenza liceale, finì il 3 novembre dello stesso anno, quando Vienna chiese l'armistizio. Alla conferenza di Versailles, all'inizio del 1919, l'Italia, che pure vi si presentava come una delle potenze vincitrici, ottenne il Tirolo cisalpino, il Trentino, Trieste, Gorizia, Gradisca, l'Istria, una parte della Dalmazia, esclusi Spalato, Fiume e altri centri costieri minori. Per il nostro Paese fu un indigesto smacco. Il "Vate", con quell'enfasi gladiatoria che tanto amava, denunciò sdegnato l'affronto giurando vendetta. Arruolò un esercito di patrioti volontari e, il 12 settembre 1919, si mise in marcia da Ronchi dei legionari alla volta Fiume, che occupò senza colpo ferire. Chi doveva difendere la città finì con il solidarizzare con lui. Il generale Pittaluga, che aveva ricevuto da Roma l'ordine di far fallire l'impresa, si rese subito conto che sarebbe stato impossibile. Se d'Annunzio aveva contro di sé il governo e, forse, gli Stati Maggiori, l'opinione pubblica del Paese lo osannava come il salvatore della Patria offesa dalla "vittoria mutilata". Gabriele non era un politico, tanto meno uno statista. L'avventura e la ribalta gli piacevano troppo per rinunciarvi. L'uomo del giorno era lui, e con lui l'esecutivo e il Parlamento dovevano far i conti. Fiume, diventò il suo personalissimo granducato. Un granducato da operetta, una specie di regnetto di Bengodi, un po' Sodoma un po' Gomorra, dove tutto era consentito a tutti. Compreso l'amore libero, l'uso e l'abuso di droga, in nome di un vitalismo sfrontato e di un orgiastico edonismo. Anche per questo, dopo sedici mesi, il "Poeta-Soldato" dovette alzare bandiera bianca e sgombrare la città degradata a bordello. Si consolò con una battuta che suscitò più ilarità che plausi: "Questa Italia non vale la mia vita".