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Il dalmatico e i dialetti marchigiani, il saggio di Marcello Mastrosanti (14ott14)

 

Una ricerca minuziosa nella parlata contemporanea dei centri marchigiani nelle vicinanze di Ancona, questo saggio di Marcello Mastrosanti, Il dalmatico, che indaga e rileva tra i lemmi dialettali di quest’area la sopravvivenza dell’antica lingua romanza sviluppatasi e diffusa dall’Istria alla Dalmazia alle sue isole nei secoli della volgarizzazione del latino. Un’indagine certosina la sua, quasi uno scavo nelle lingue ancora vive per cogliere le corrispondenze e le assonanze di alcuni dialetti anconetani con quella parlata ormai estinta, già indagata nel 1906 dal grande Matteo Bartoli, istriano di Albona, e dall’insigne Aldo Duro, zaratino, nel suo saggio pubblicato postumo nel 2000, Il dalmatico. Resti di un’antica lingua romanza parlata da Veglia a Ragusa [di Dalmazia, ndr].

 

«Il dalmatico, detto anche ciacavo – scrive nella Presentazione al volume Sanzio Balducci, docente di dialettologia nell’Università di Urbino – si distingue nettamente dal croato ed è stato fortemente influenzato dal dialetto veneziano, così come è avvenuto per gran parte delle parlate adriatiche». Le intense relazioni sviluppatesi almeno dal XII secolo tra le regioni dell’Adriatico orientale e la costa occidentale della Penisola italiana crearono nel tempo significative contaminazioni linguistiche tra il dalmatico e i volgari marchigiani, non senza incidere anche sui toponimi locali, come – illustra Mastrosanti – nel caso del paese di Sappanico, che avrebbe la sua radice nell’omologo Sapanich, o il castello di Camurata, in dalmatico Camurat, o, ancora, la contrada di Cataro ad Ancona, da Cattaro, la contrada Conocchio, dalla famiglia Conoch, e il fondo Radicho, dalla famiglia Radich segnalata in un documento del 1259.

 

I paesi che gravitano intorno ad Ancona – ricorda Mastrosanti – sin dal medioevo sono popolati in parte da dalmati, specialmente nel secolo XV. […] A Camerano, la contrada di San Germano è composta quasi esclusivamente da dalmati e non slavi, con la loro chiesa e preti», come il primo, attestato nel 1519, frate Pietro da Cherso. E così per tutta una serie di esempi che l’autore cita confutando con sicurezza e una non celata vis polemica la confusione, talvolta involontaria tra l’altra voluta, tra dalmatico e slavo, tra parlata e popolazioni neolatine e idiomi e presunte identità slavi. Interessanti risultano anche le sintesi che Mastrosanti fornisce di atti notarili dei secoli XIV, XV e XVI, dai quali si evincono le intense relazioni tra le due rive adriatiche in molti settori della vita pubblica e finanche del’arte.

 

L’autore passa quindi in rassegna la pubblicistica più e meno recente sull’argomento, confutando errori e sviste prima di lasciare le pagine ai glossari, il primo dall’italiano al dalmatico o ciacavo, il secondo dall’italiano al ciacavo e al dalmatico; il terzo, il quarto e il quinto, più ridotti, concernenti rispettivamente «i vocaboli del cosiddetto dialetto croato, il ciacavo parlato in Dalmazia», i vocaboli in uso solo a Neresine (Lussino) e i vocaboli di Acquaviva-Collecroce in Molise: un’immersione nel tempo e nelle molte varianti lessicali scaturite in luoghi diversi nel lungo percorso di evoluzione della lingua parlata e scritta di qua e di là di un mare che per innumerevoli secoli si è nutrito di una comune civiltà. Come conferma in apertura la breve nota di Franco Rismondo, esponente di primo piano della comunità di esuli giuliani e dalmati nell’anconetano, involontari eredi nel secondo dopoguerra di quegli antichi concittadini.

 

Patrizia C. Hansen

 

Marcello Mastrosanti, Il dalmatico,

Poligrafica Bellomo, Ancona 2014, pp. 248, s. i. p.

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