15.09.2025 – Il 10 febbraio 1947 l’Italia firmò a Parigi il Trattato di Pace che pose ufficialmente fine alla Seconda guerra mondiale ed allo status armistiziale iniziato nel settembre del 1943. L’Assemblea costituente nei mesi seguenti fu chiamata a ratificare tale trattato internazionale: come autorevoli padri costituenti denunciarono, il consesso che gli italiani avevano eletto contestualmente al referendum istituzionale del 2 giugno 1946 non poteva fare altro che votare favorevolmente. Non c’erano margini di manovra o di discussione, si trattava di un diktat vero e proprio, sul quale sia la relazione di maggioranza che quella di minoranza espressero, infatti, indicazione di voto favorevole. La lotta partigiana, la cobelligeranza del Regno del Sud con ricostituite truppe, la resistenza passiva degli Internati Militari Italiani: nulla era servito a mitigare lo status di sconfitto dell’Italia, come ben sapeva il presidente del consiglio Alcide De Gasperi allorchè intervenne alla Conferenza di pace il 10 agosto 1946:
Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato, l’essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione.
A prescindere da questa ratifica meramente formale, restava il dubbio su quando il Trattato sarebbe entrato in vigore a tutti gli effetti, ponendo quindi ufficialmente fine alla sovranità italiana su quelle province che venivano cedute alla Jugoslavia: ecco perchè la motonave Toscana si adoperò tra febbraio e marzo del 1947 a trasferire la quasi totalità dei polesani nei porti di Ancona e di Venezia. Un comitato per l’esodo da Pola si era costituito appena avevano cominciato a circolare voci sulla cessione della città dell’arena alla Jugoslavia comunista ed i polesani vi avevano aderito massicciamente. La strage di Vergarolla del 18 agosto 1946 fu immediatamente attribuita ad emissari della Jugoslavia comunista, che avrebbe così voluto colpire una città che continuava a ostentare la propria italianità, e rappresentò un ulteriore decisivo impulso all’esodo. Il 10 febbraio 1947, mentre a Parigi il plenipotenziario italiano firmava il Trattato ed in tutta Italia manifestazioni patriottiche contestavano le pesanti condizioni di pace e le mutilazioni territoriali, a Pola la maestra Maria Pasquinelli uccise a colpi di pistola il comandante della guarnigione britannica Robert De Winton che passava in rassegna le sue truppe. Un gesto disperato, consumato mentre altre centinaia di polesani si accalcavano sul lungomare per essere imbarcati sul Toscana; un gesto estremo compiuto contro colui il quale rappresentava quelle quattro potenze che avevano deciso a tavolino la sorte del confine orientale italiano, cedendo al loro carnefice quelle località che dalla primavera del 1945 erano state luogo di violenza, prevaricazione, sequestri e uccisioni a danno della comunità italiana autoctona.

Nell’estate del 1947 le potenze vincitrici ufficializzarono che il Trattato sarebbe entrato in vigore il successivo 16 settembre. Poco dopo la mezzanotte tra il 15 ed il 16 settembre se ne andarono dalla città dell’arena a bordo del piroscafo Pola gli ultimi funzionari italiani assieme ai soldati britannici rimasti di presidio; nelle ore seguenti distaccamenti della divisione di fanteria Mantova ed un sottoprefetto subentravano invece all’amministrazione alleata a Gorizia, che restava italiana anche se attraversata dal confine con la Jugoslavia che aveva tagliato la periferia orientale del capoluogo isontino. A Trieste ed in uno spicchio d’Istria settentrionale sarebbe dovuto sorgere il Territorio Libero di Trieste, ma il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non riuscì ad individuare il governatore e quindi sarebbe proseguita l’amministrazione militare: angloamericana nella Zona A (Trieste) e jugoslava nella Zona B (distretti di Capodistria, Umago e Buie fino alla foce del fiume Quieto).
L’entrata in vigore del Trattato dava inoltre un anno di tempo ai residenti nei territori ceduti alla Jugoslavia per esercitare il diritto di opzione: potevano cioè optare per la cittadinanza italiana o jugoslava. Qualora avessero scelto la cittadinanza italiana, la Jugoslavia poteva entro un anno chiedere il trasferimento dell’optante (e di tutta la sua famiglia) in Italia. Il Trattato garantiva tuttavia il diritto di proprietà degli optanti, ma le autorità di Belgrado furono zelanti nell’allontanare gli italiani, molto meno nel garantirne i beni immobili, che furono confiscati o nazionalizzati: lo Stato italiano avrebbe poi ottenuto di detrarre il valore di tali beni espropriati dalle riparazioni di guerra che doveva a Belgrado. Gli indennizzi per tali beni sono stati corrisposti in minima parte ed in percentuali di molto inferiori al valore effettivo e tale questione rimane ancora aperta sul Tavolo di lavoro Governo italiano – Associazioni degli esuli.
L’opzione fu pertanto il tecnicismo con cui gli italiani dell’Istria, di Fiume e di Zara concretizzarono quel che scrisse Indro Montanelli: due volte italiani, una per nascita ed una per scelta. Una scelta che significò abbandonare la propria casa e la terra in cui si viveva da generazioni, affrontare un viaggio verso l’ignoto nell’Italia disastrata del dopoguerra, abbandonare genitori e nonni troppo anziani per affrontare questo viaggio nonchè parenti che non riuscivano a staccarsi dalle proprie radici. Non mancò chi rimase per convinzioni ideologiche nelle meravigliose progressive sorti che prometteva la Jugoslavia di Tito, ci fu il “controesodo” di operai soprattutto provenienti dalla città cantieristica di Monfalcone in provincia di Gorizia che era rimasta italiana mentre costoro auspicavano l’annessione alla Jugoslavia. Ci fu chi fu impossibilitato dalle autorità jugoslave ad esercitare il suo diritto di opzione, poichè l’emorragia di italiani, che il regime comunista jugoslavo da un lato aveva caldeggiato per allontanare possibili quinte colonne delle potenze capitaliste occidentali e per snazionalizzare più agevolmente le nuove annessioni, dall’altro svuotava un’intera regione di competenze e di professionalità che le persone provenienti dalle regioni più disparate della Jugoslavia per colonizzare il territorio ed insediarsi nelle case abbandonate degli italiani non erano in grado di fornire.

Il limite per richiedere l’opzione fu più volte prorogato, il passaggio della Zona B all’amministrazione civile jugoslava con il Memorandum di Londra del 5 ottobre 1954 causò un’ulteriore ondata di profughi, sicchè anche negli anni Cinquanta si prolungò lo spostamento coatto di civili che si era avviato ancora con il conflitto in corso. Il piroscafo Sansego già nel 1943-’44 portò infatti a Trieste in diversi travagliati viaggi migliaia di zaratini in salvo dal capoluogo della Dalmazia devastato dai bombardamenti e che già nel novembre 1944 sarebbe stato occupato dall’esercito jugoslavo.
Esodo, masserizie abbandonate in enormi magazzini, fatiscenti Centri Raccolta Profughi, la traumatica decisione per tanti di intraprendere la via dell’emigrazione in cerca di una situazione migliore, le assegnazioni delle prime case popolari nei borghi giuliani, episodi di diffidenza e di accoglienza da parte delle comunità che vedevano arrivare i profughi… L’entrata in vigore del Trattato di Pace non solo sancì definitivamente le cessioni territoriali, ma soprattutto segnò l’inizio della fase più drammatica dell’Esodo giuliano-dalmata.
Lorenzo Salimbeni
