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I segni del confine (Osservatorio Balcani 06 ott)

Torrette di controllo trasformate in pollaio, caserme in ristoranti e la stella rossa divenuta, per un Natale, stella cadente. Il confine tra Gorizia e Nova Gorica, i suoi simboli, le sue rimozioni

 

Un articolo di Gian Matteo Apuzzo e Guido Barella

I confini sono fatti di segni, vivono di segni, ancora più evidenti e pieni di significato quando entrano nelle forme urbane di una città, divenendone parte del vissuto quotidiano e quindi della memoria. A Gorizia e Nova Gorica i segni del confine sono parte comune della storia di entrambe le città, simboli di una diversità che si contrapponeva forzatamente. Come la storia su questo confine è stata complessa e contraddittoria, anche i segni vivono un loro destino complesso, una traiettoria a volte schizofrenica ma molto significativa.

Così avviene per le torri di controllo, stražarski stolp in sloveno. Strette e alte, con in cima l’altana tutt’attorno. Ce ne sono due lungo la strada del Vallone che dal Lisert di Monfalcone arriva a Gorizia, a un pugno di chilometri dalla città. La prima la si vede subito lungo il rettilineo che porta al valico di Miren/Merna, proprio a fianco di un campo di calcetto, punto di ritrovo estivo dei ragazzi. Queste torri erano usate dai soldati del KNOJ, il Corpo della difesa nazionale jugoslava, o della JLA, l’Armata popolare jugoslava, per noi semplicemente i “graniciari”. Ancora oggi ci sono i loro nomi incisi nel legno attorno alle finestre, e affianco ai nomi un numero: il numero di giorni che mancavano alla fine della naja, all’alba, come dicevano i soldati di leva: “Adamovic, 89”, “Galic, 9”, etc.

Una delle due torri è diventata un pollaio: oggi, lì dove i graniciari si davano il turno, razzolano indolenti le galline. Poche centinaia di metri più in là, l’altra torre, proprio alle spalle della caserma della Guardia di Finanza, è stata un po’ più fortunata e oggi è un museo. Un mini museo, ma pur sempre un museo. All’interno ci hanno messo, lungo le pareti, fotografie che raccontano per immagini la storia del confine. E una volta su, in cima, guardi attraverso le feritoie e vedi la caserma italiana di fronte: è lì, vicinissima, ti sembra quasi di toccarla. Le due torri, l’una pollaio e l’altra museo, sono, a modo loro, il paradigma di come lungo questo confine si vivono i “segni” della storia: una sorta di schizofrenia che ha fatto sì che soltanto il Goriški Muzej abbia avuto, dopo l’ingresso della Slovenia nella Ue, l’intuizione di creare un museo del confine, accompagnata dall’altrettanto felice idea di ospitarlo all’interno della stazione della Transalpina. Un simbolo nel simbolo. Eppure, a questo museo teoricamente così significativo, è stata concessa solo una stanzetta di pochi metri quadrati e l’apertura è affidata alla disponibilità della signora dell’agenzia turistica nell’atrio della stazione asburgica.

Come sempre, il confine a Gorizia-Nova Gorica, ma in fondo come avviene anche a Trieste, è un concetto sempre a cavallo tra memoria e oblio, tra ricordo e rimozione, tra risorsa e problema, tra attenzione e indifferenza. Simbolo, per il quotidiano come per il passato e per il futuro, e per questo oggetto della retorica, in un modo o nell’altro. Simbolo fatto di simboli, nelle parole, nelle relazioni, nei “segni” del confine.

Segni dai quali possiamo leggere la storia e le sue contraddizioni. Come ha detto Sergio Zilli, ricercatore di geografia all’Università di Trieste, Nova Gorica stessa è un “segno”, il “segno” più grande lasciato dalla storia del dopoguerra su questo confine. Ma essa stessa è una contraddizione vivente. Nova Gorica è sorta su quei prati che un tempo ospitavano il cimitero di Gorizia: disegnata dall’architetto Edvard Ravnikar, allievo di Le Courbusier, con grandi viali che dovevano richiamare i boulevard francesi, in realtà è poi cresciuta come è cresciuta perché a un certo punto sono finiti i soldi e quindi sono sorti i ruski bloki, uguali a tante altre periferie socialiste. Città simbolo del socialismo: “Mi gradimo socializem” – “Costruiamo il socialismo” – c’era scritto con orgoglio sul tetto della stazione, un messaggio lanciato verso via Caprin, a Gorizia, all’Italia, al mondo occidentale. Eppure ora, nonostante gli sforzi dell’amministrazione comunale nel costruire un’immagine qualità, per molti italiani è diventata ed è ancora la città dei casinò e, sembra, dei casini, come ha raccontato recentemente un inviato del quotidiano torinese La Stampa, che ha dedicato una pagina intera ai vizi che ricchi industrialotti emiliani o lombardi rincorrono nella città nata per essere, appunto, il simbolo del socialismo.

Simboli abbiamo detto, sempre messi in mostra davanti all’avversario, come è naturale per un confine e ancor di più per una città divisa. Simboli che però cambiano con la storia. Come la stella rossa piazzata sul tetto della Transalpina, simbolo anch’essa del socialismo. Venne dopo al “Mi gradimo socializem” per dire, appunto, che il socialismo era stato costruito. Nell’ultimo Natale della Slovenia ancora jugoslava, la dipinsero di giallo, le appiccicarono una coda e divenne una cometa. Passato il Natale e anche l’Epifania, la tirarono via. Non serviva più. E adesso è lì, in quel mini museo, al piano terra della stazione sulla quale aveva campeggiato per decenni interi a mostrare l’orgoglio di un popolo intero.

I “segni” parlano, e ci raccontano tutta l’incongruenza di questa realtà “post”, post muro di Berlino, post dissolvimento della Jugoslavia, post tutto. Martin Greif (Rudi), Jože Lemut (Saša) e Mile Spacapan (Igor) sono tre comandanti partigiani. A loro Nova Gorica ha dedicato altrettante steli, con il loro busto e la stella rossa. Oggi a fare loro ombra c’è il dorso a forma di chiglia di nave del Casinò Perla, il fiore all’occhiello della Hit. Le contraddizioni della storia: 3 steli partigiane “coperte” da 1138 slot machine, 70 tavoli da gioco dei quali 28 per la roulette americana, 226 camere, 20 suite e 4 suite di lusso.

E il povero Carlo Michelstaedter? Il filosofo goriziano morto suicida a 23 anni nel 1910 – quando Gorizia era ancora una città in cui si discorreva tranquillamente in quattro lingue, italiano, sloveno, tedesco e friulano ed era nota come la Nizza dell’impero per il suo clima ameno – il filosofo goriziano, dicevamo, ora riposa nel cimitero ebraico di Val di Rose, appena al di là del confine della Casa Rossa. Proprio affianco al cimitero, a “disturbare” la pace del luogo è sorto un casinò, il Fortuna. E solo ora, dopo tanta fatica, il Comune di Nova Gorica è riuscito a imporgli di traslocare.

Intanto, anche la casermetta dei graniciari sul Sabotino, avamposto che più avamposto non si poteva in piena guerra fredda, è diventata una okrepcevalnica, un posto di ristoro per gli escursionisti che salgono a rimirare il panorama che spazia fino a Grado. Oggi, guardi il campetto di pallacanestro dove si sfogavano i soldati durante i turni di riposo sognando chissà di giocare un derby Stella Rossa-Partizan o un mitico Bosna-Jugoplastika, e sorridi. Poco più sotto, a due passi, c’è la casermetta italiana.

E a proposito di schizofrenie che accompagnano la storia di questo confine, a Gorizia il dibattito che ha tenuto banco recentemente nella rubrica delle lettere dei quotidiani locali è stato dedicato alla riaccensione del neon tricolore che la sera si illuminava ai piedi del caposaldo italiano, presidiato in passato dai fanti del “Torino”. Ma forse non tutti i goriziani sanno la storia di quel tricolore al neon. La prima edizione – un po’ più piccola di quella attuale – risale ai primi anni Sessanta. Accadde infatti che i soldati “jughi” – come si diceva di qua del confine – scrissero sul dorso del Sabotino un gigantesco “Tito” (precursore del “Naš Tito” successivo, poi tramutato in “Slo” dopo l’indipendenza e perfino in un irriverente “Naš Fido” in anni recenti, prima di essere cancellato dal tempo e dalla volontà di un gruppo di Novogoricani di chiudere con quel passato). Insomma, per rispondere a quella che veniva considerata una provocazione “juga”, venne in mente un’idea, letteralmente luminosa: un neon tricolore, verde, bianco e rosso. Solo che i fanti elettricisti, che lavorarono una giornata intera, stando a monte del neon, disposero i tubi al contrario: rosso, bianco, verde. Si racconta che la sera, quando il neon venne acceso, nemmeno il tempo di vedere la luce irradiarsi nel cielo di Gorizia, dal comando in città arrivò una telefonata dell’ufficiale che tuonò: “Ma la conoscete la nostra bandiera?!”.

I “segni” del confine, appunto, che cambiano come cambia l’idea del confine stesso. Oggi a Gorizia, nell’epoca della sicurezza e della paura, si vuole presidiare il confine ormai aperto con delle telecamere, non più messe per gli “jughi”, ma per qualche ipotetico immigrato che dovesse scegliere Via San Gabriele per entrare in Italia. Le telecamere, simboli in fondo anch’esse della storia e delle sue contraddizioni. Ieri i confini venivano pattugliati dai graniciari dallo sguardo truce e il dito sul grilletto del fucile, in quelle loro divise che sembravano sempre fuori misura, anche se nessuno si sarebbe mai sognato di dirglielo. Oggi, al massimo, strappano un sorriso amaro, in un confine che vive di ricordi e che non ha ancora ben trovato la strada del futuro. Come quelle scritte sui muri, quei “Hocemo Jugoslavija” (Vogliamo la Jugoslavia) o “Tu je Jugoslavija” (Qui è Jugoslavia) che ancora oggi campeggiano sui muri di Jamiano e, di là del confine, a Kojsko. Sopravvissuti a mille intemperie ma superati dalla storia.

 

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