ANVGD_cover-post-no-img

I resti del ”Wien” nel vallone di Muggia (Il Piccolo 04 dic)

di PIETRO SPIRITO

Sul fondo del vallone di Muggia, di fronte agli impianti della Ferriera, sono stati ritrovati i resti del relitto della corazzata austroungarica «Wien», affondata dal Mas di Luigi Rizzo il 10 dicembre del 1917. Da oltre cinquant’anni non veniva effettuata una ricognizione ufficiale sul sito dell’affondamento.

TRIESTE Se ne era persa la traccia cinquant’anni fa, dopo le ultime demolizioni effettuate dai palombari. Sparita dalla carte nautiche, nel giro di mezzo secolo era stata praticamente cancellata anche dalla memoria della città. E invece la corazzata S.M.S. «Wien», affondata dal Mas 9 di Luigi Rizzo la notte del 10 dicembre 1917, è ancora là, a 20 metri di profondità nel vallone di Muggia, a meno di mezzo miglio di distanza dagli impianti della Ferriera. Ciò che rimane del relitto dell’unità da guerra austroungarica è sepolto sotto un spesso strato di fango dal quale emergono pezzi contorti di lamiera, alcune ordinate incrostate come costole di una gigantesca carcassa, frammenti irriconoscibili di quella che fu un’unità da combattimento da 5600 tonnellate. Le ultime cronache, negli anni Cinquanta, la davano completamente fatta a pezzi per recuperare ferro e acciaio. Invece lo scafo della corazzata è ancora lì, integro nella forma, come mostrano le immagini effettuate con il side scan sonar. E lì, sul fondo, il fasciame chiodato, gli spuntoni delle ordinate avvolte da vecchie reti, brandelli di metallo slabbrati dalle esplosioni dei demolitori compaiono all’improvviso tra le nuvole di polvere sollevate a ogni minimo movimento mentre nuotiamo in un’atmosfera surreale tra i resti della «Wien».

Il relitto è stato ritrovato e ri-mappato da Stefano Caressa, dell’omonima ditta di lavori marittimi di Grado. In possesso di una vecchia carta nautica che riportava la posizione del relitto, Caressa ha effettuato un sopralluogo nella baia di Muggia utilizzando il side scan sonar, apparecchio che permette di «fotografare» il fondo del mare con sorprendente precisione. E subito, in coincidenza con le coordinate della mappa, sullo schermo del computer è apparsa la sagoma spettrale della nave. Caressa ha informato i carabinieri subacquei di Trieste, al comando del maresciallo Renato Basso. Ed è assieme a loro, allo stesso Caressa e al fotografo Roberto Pertoldi che scendiamo sui resti del relitto per una prima ricognizione ufficiale dopo più di mezzo secolo.

La visibilità è di pochi centimetri: la vicinanza degli scarichi dello stabilimento siderurgico, il passaggio continuo di mercantili, bettoline e rimorchiatori hanno ridotto i fondali di questa parte del golfo a una specie di deserto post-atomico sommerso, dove si sollevano montagne di sottilissima polvere ad ogni minimo accenno di corrente. Difficile dire se lo scafo sia capovolto o adagiato sul lato di dritta, come dicono le testimonianza dell’epoca: impossibile avere una visione completa del relitto, che si manifesta a pezzi, brevi apparizioni di singoli frammenti, mentre l’imagine fantasmatica del side scan sonar mostra una forma allungata, con la poppa e la prua. La luce delle torce a malapena intercetta i rottami semisepolti del guardacoste corazzato, e ogni tanto il buio diventa assoluto, segno che stiamo entrando nella depressione lasciata dal ventre dello scafo, lo stesso scafo che novantun anni fa venne colpito dai siluri di Luigi Rizzo.

Quella sera del 10 dicembre 1917 il mare era leggermente mosso da levante, ed era coperto da una densa foschia. Oltre la grande diga del vallone di Muggia le corazzate gemelle «Wien» e «Budapest» erano alla fonda, come grandi animali addormentati, dopo aver martellato un mese prima le postazioni dell’artiglieria italiana alla foce del Piave, sull’isolotto di Cortellazzo.

Dopo la dodicesima battaglia dell’Isonzo che aveva scompigliato gli equilibri di forze nel golfo, le due unità imperiali erano troppo pericolose per i comandi delle forze armate italiane, che affidarono all’allora sottotenente di vascello Luigi Rizzo il compito di neutralizzare le corazzate. La sera dell’attacco i Mas 9 e 13, trainati da due torpediniere, arrivarono alle 22,45 al punto stabilito in mezzo al golfo. Azionati i motori elettrici, dopo più di un’ora i barchini raggiunsero nella più assoluta oscurità la testa Nord della diga. Rizzo ormeggiò, scese, e si rese conto che non c’era nessuno di guardia. Dall’altra parte della diga si sentivano voci, si vedeva un luce incerta. Ma le sentinelle austriache non si erano accorte degli incursori italiani. Silenziosamente i Mas raggiunsero le ostruzioni oltre a diga. Per due ore gli uomini al comando di Rizzo tagliarono sette cavi d’acciaio sotto il pelo dell’acqua, a diversi livelli. Quando mancavano due minuti alle due di notte fu aperto l’ultimo varco. I Mas
si avviarono quasi alla cieca verso gli obiettivi: il Mas 9 puntò sulla «Wien», il 13 sulla «Budapest». Alle 2.32, giunto a 50 metri dalla sagoma scura dell’unità, Rizzo lanciò i siluri. Due alte colonne d’acqua si alzarono nella notte, un proiettore sulla coffa della nave si accese ma si spense subito dopo. Lanciò anche il Mas 13 verso la «Budapest», ma i siluri mancarono il bersaglio. Le difese asutriache di terra si svegliarono, e presto fu un inferno di luci ed esplosioni. I due Mas fuggirono a tutta forza e riuscirono a mettersi in salvo.

Intanto la «Wien» affondava. Ricorderà il comandante della corazzata, il capitano di fregata Leopold Huber von Schebenhain: «Improvvisamente lo sbandamento aumentò rapidamente, e la nave si piegò a dritta, finché il ponte di coperta si trovò quasi in posizione verticale, e così perdemmo l’equilibrio e scivolammo. Dal siluramento al momento dell’affondamento trascorsero circa 5 minuti». La corazzata colò a picco portando con sé 33 marinai. Per diversi giorni il mare restituì i loro corpi lungo la costa muggesana.

La «Wien» rimase coricata sul fondo del vallone di Muggia per dieci anni. Nel maggio del 1925, in occasione delle celebrazioni italiane per i dieci anni dell’entrata in guerra, il gigante d’acciaio cominciò ad essere fatto a pezzi (ma già in precedenza gli austroungarici avevano provato a smontare le bocche da fuoco). I palombari della ditta Serra di La Spezia effettuarono una parziale demolizione del relitto, recuperando lo sperone di prua, che fu regalato a D’Annunzio e portato al Vittoriale, e il pezzo della poppa con il nome della corazzata, oggi conservato al Museo dell’Arsenale di Venezia. Fu recuperata anche la parte della fiancata colpita dai siluri di Rizzo, mentre alcuni frammenti furono murati dalla Lega Nazionale su un lato della diga foranea, che da allora ha preso il nome di Rizzo. A Trieste per l’occasione lo stesso affondatore della nave, infilato l’elmo da palombaro, scese sul fondo a vedere da vicino la preda uccisa e fatta a brani.

La demolizione del relitto proseguì nel corso del tempo, a più riprese, ad opera delle ditte Ferrazzutti, Montanari e Babich. Finché, tra il 1953 e il 1955, i palombari dell’Impresa lavori subacquei di via San Servolo, tra cui Paolo Lavagnini e Bruno Lonza, che utilizzarono anche l’esplosivo per riportare in superficie le parti della nave ancora utilizzabili. Dopodiché lo scheletro della «Wien» rimase dov’era, fantasma d’acciaio in un sudario di fango.

0 Condivisioni

Scopri i nostri Podcast

Scopri le storie dei grandi campioni Giuliano Dalmati e le relazioni politico-culturali tra l’Italia e gli Stati rivieraschi dell’Adriatico attraverso i nostri podcast.