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Hotel Balkan, ex luogo-simbolo dell’odio etnico

Da Il Piccolo del 22 aprile 2009

Il 13 luglio 1920 nel corso di scontri tra fascisti ed esponenti della comunità slovena viene incendiato l’Hotel Balkan che ospitava la sede del Narodni Dom l In quella giornata persero la vita prima dell’incendio Giovanni Nini in piazza Unità, il tenente dei carabinieri Luigi Casciana e Hugen Roblek che si gettò dall’edificio l Quello che Giani Stuparich chiamò «tragico spettacolo» segnò in maniera profonda lo scontro etnico e politico tra italiani e sloveni. Oggi quel palazzo di via Filzi ospita la Scuola Interpreti dell’Università di Trieste

di PIETRO SPIRITO

«Vorrei sapere dov’è sepolto il mio bisnonno, e sarebbe bello che Trieste gli potesse dedicare una via, o un capo di piazza». Michela Cristina Zardini, 32 anni, di mestiere è grafica e vive a Bologna. Il bisnonno di cui parla è, anzi era, Luigi Casciana, tenente dei carabinieri, ferito a morte il 13 luglio 1920 durante gli scontri che culminarono con l’incendio del Narodni dom, la Casa del popolo che aveva sede nell’Hotel Balkan, poi Hotel Regina, oggi dimora della Scuola superiore di lingue moderne per interpreti e traduttori, in via Filzi 14. Luigi Casciana fu una delle tre vittime della battaglia urbana del Balkan: le altre furono Giovanni Nini, cuoco dell’albergo Bonavia, ucciso a coltellate durante un precedente comizio fascista, e Hugen Roblek che, intrappolato dalle fiamme nei locali dell’hotel, si gettò dalla finestra assieme alla figlia(che pur gravemente ferita riuscì a salvarsi). In anni recenti la mamma di Michela Cristina Zardini, Serena Casciana Zardini, 60 anni (vive anche lei a Bologna), nipote del tenente Casciana e moglie di Luigi Casciana junior, ha cercato di riannodare le fila della sua storia familiare, partendo dalla tragedia del luglio 1920. E oggi la bisnipote di Casciana, Michela, ha raccolto il testimone nella convinzione che rattoppare le fratture del tempo sia indispensabile per capire meglio da dove veniamo e dove andiamo.

Ma è sempre difficile affrontare il nodo delle memorie quando si parla dell’incendio del Balkan. Ed è significativo che nell’edificio simbolo dell’inizio della repressione fascista nei confronti della comunità slovena oggi vi sia una facoltà universitaria a sua volta simbolo della fratellanza universale, dove si insegnano le lingue del mondo. Quasi mille studenti, una biblioteca con 43mila volumi, corsi di italiano, russo, spagnolo, croato, sloveno, serbo, arabo, olandese e portoghese, la Scuola per interpreti e traduttori conserva in alcuni arredi – pavimenti, marmi, le scale e la gabbia di un ascensore – i tratti originali del Balkan. Al piano terra un locale ospita la nuova sede del Narodmi dom, mentre una targa cita il ”tragico spettacolo” del luglio 1920 evocato da Giani Stuparich in ”Trieste nei miei ricordi”: «Una visione funesta di crolli e rovine come se qualcosa di assai più feroce della stessa guerra passata minacciasse le fondamenta della nostra civiltà». L’ex Hotel Regina è un altro dei luoghi di
Trieste dove passato, presente e futuro si intrecciano: «Non è un caso – commenta la preside della Scuola, Lorenza Rega – che sia stato scelto questo luogo per lo studio delle lingue e delle culture straniere, scelta dettata da uno spirito che si proietta in tutto il mondo».

Ma il passato, si sa, a Trieste fa sempre fatica a passare. «Quando ho tenuto lì un incontro pubblico mi sono sentito umiliato», dice lo scrittore Boris Pahor, uno degli ultimi testimoni diretti dell’incendio del Balkan. «Ero un bambino di sette anni – ricorda Pahor -, allora abitavamo in via Commerciale, prima siamo scappati nel seminterrato, poi sono andato con mia sorella a vedere da vicino l’incendio; ricordo il senso di tragedia e di catastrofe, c’era tutto un mondo che andava in pezzi; proprio al Balkan l’anno prima avevo passato una bellissima serata, distribuivano i regali di San Nicolò e c’erano i diavoli che facevano paura ai bambini; poi i diavoli neri sono arrivati davvero».

«Il mio sentimento nei confronti di quel luogo è doppio e multiplo – continua Pahor -, da un lato l’umiliazione per essere ospite, oggi, in un luogo che era della comunità slovena e che simboleggia per me un futuro di perdita; dall’altro riconosco nella sede della Scuola per interpreti e traduttori una realtà importante per creare un’amicizia culturale e linguistica condivisa». «Ma ancora oggi – aggiunge lo scrittore – non c’è una targa che citi esplicitamente il fascismo, e finché non ci sarà un riconoscimento istituzionale, governativo, da parte dell’Italia dei crimini perpetrati dal fascismo io non riuscirò a mettermi il cuore in pace».

Stenta a riconoscere nell’edificio progetatto da Max Fabiani un valore simbolico proiettato nel futuro anche Paolo Sardos Albertini, presidente della Lega Nazionale: «L’incendio del Balkan – spiega – si inserì in una serie di eventi similari: nel 1898 a Santa Croce ed a Duino Aurisina vengono incendiate scuole della Lega Nazionale; il 23 maggio del 1915, in contemporanea, vengono dati alle fiamme a Trieste, la sede de “Il Piccolo”, della Ginnastica Triestina e della Lega Nazionale; nel 1928 scuola materna e doposcuola della Lega ad Opicina vengono distrutte (ad opera del gruppo terroristico Orijuna)». Un triste elenco di violenze, continua Sardos, «tutte ascrivibili all’ideologia ottocentesca del nazionalismo. Poi arrivarono le nuove ideologie, quelle del ‘900, e cioè nazional-socialismo e comunismo. E lasciarono nelle nostre terre, a loro triste memoria, i simboli della Risiera e delle Foibe. Ma nel 1989 con la fine del comunismo tutte le ideologie sono definitivamente uscite dalla Storia». «Ecco perché – conclude Sardos Albertini – l’ex Hotel Regina non ha bisogno di proporsi come simbolo. È semplicemente e felicemente un luogo in cui ci si incontra per studiare, per confrontarsi. Anche per divertirsi, se osserviamo i gruppi di ragazzi e ragazze che allegramente sciamano in via Filzi».

«Quando penso all’incendio del Balkan del 1920 – interviene il giornalista e scrittore Dušan Jelincic – sono sommerso da sensazioni dolorose soprattutto per Trieste, che è la mia città. Perché la sua distruzione da parte delle orde fasciste venute da fuori e che quasi nessun triestino appoggiava (questo ce lo dimentichiamo sempre) dava un calcio letale alla modernità e alla multietnicità. Con quell’incendio morì definitivamente quella Trieste dove l’atrio del Balkan era l'atrio di una stazione ferroviaria centroeuropea, e quelli che ci andavano al bar erano sloveni sì, ma anche italiani, tedeschi, austriaci, cechi ecc. Ma moriva anche definitivamente quella Trieste che aveva scuole trilingue – italiana, slovena e tedesca e quindi respirava tre culture differenti, ma in fin dei conti anche tanto complementari».

«Che possiamo fare? Con Noam Chomsky – aggiunge Jelincic – dico che siamo ancora in tempo. Ci sono da fare tanti passi, magari piccoli, ma ogni giorno, tenacemente. A patto di respingere i professionisti della zizzania, gli accattoni del voto quando si avvicinano le elezioni (lo spettro del bilinguismo "tira" ancora). Dovremmo far scoppiare non un incendio, ma l'armonia in una città stupenda, la mia città, dove voglio bene a tutti, ma propri tutti, senza distinzioni, e dove (quasi sempre) l'armonia, l'amicizia e la tolleranza nel quotidiano esistono già, fino a che non si sveglia la bestia che è in noi, come avvenne nel 1920».

«Il mio bisnonno Luigi Casciana – conclude da Bologna Michela Cristina Zardini – comandava i carabinieri che impedivano l’accesso dei dimostranti al Balkan difendendo la sede del Narodni dom, e fu colpito dalle schegge delle bombe a mano lanciate proprio dal secondo piano dell’hotel; morì dopo sette giorni di agonia; ci piacerebbe che la sua memoria fosse ricordata».

 

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