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Goli Otok, l’inferno di Tito (Il Piccolo 16 lug)

di DIEGO ZANDEL

Nel giugno del 1948, Stalin espulse la Lega dei Comunisti di Tito dal Cominform. Da quel momento cominciò, all’interno del partito jugoslavo, con il contributo della polizia politica, la temibile Ubda (Uprava za Drzavnu Bezbjednost, direzione per la sicurezza dello stato), un’epurazione di tutti quegli elementi sia apertamente cominformisti, sia sospettati di essere tali. Nel corso degli anni che vanno dall’inizio del 1949 al 1953 vennero via via tutti arrestati e portati in autentici lager nei quali subirono maltrattamenti di ogni sorta che finirono per annientarli fisicamente e spiritualmente.

È stata una tragedia che ha procurato 5000 morti tra le 20 mila persone coinvolte, tra cui circa 2000 comunisti italiani, filosovietici come il Pci, che si erano trasferiti in Jugoslavia per costruire il socialismo. È emersa in Occidente solo con la fine della Federativa di Tito. In Italia è stato documentato dal libro di Giacomo Scotti «Goli Otok», edito dalla Lint, la piccola casa editrice triestina. Da quel libro ha preso le mosse Giampaolo Pansa, prefatore della seconda edizione del libro di Scotti, dove il giornalista ha espresso tutto il suo stupore per una vicenda della quale è sempre stato all’oscuro, e che poi, per la Sperling&Kupfer, gli avrebbe ispirato «Prigionieri del silenzio», con riferimento a quei comunisti italiani che, tornati in Italia, con spirito militante, per non prestare il fianco alla propaganda anticomunista, hanno sempre taciuto sulla loro tragedia.

A questi testi si aggiunge ora un’altra testimonianza, quella di Dunja Badnjevic, serba di nascita, ma di famiglia bosniaca, ormai da oltre 40 anni in Italia, curatrice per i Meridiani Mondadori delle opere di Ivo Andric, figlia di Esref. Il padre, prima partigiano con Tito, quindi esponente di punta della Lega dei Comunisti e ambasciatore della Jugoslavia in Egitto nel 1945, venne arrestato nel 1951, quando Dunja aveva cinque anni. Anche lui fu portato su quell’isola del Quarnero, tra Buccari e Arbe, così sassosa, priva di vegetazione, da essere chiamata, appunto, Goli Otok, ovvero Isola nuda (o calva).

E «L’isola nuda» s’intitola il libro (edito da Bollati Boringhieri, pagg. 162, euro 14), in cui lei racconta quella ormai lontana vicenda del padre, che ha dolorosamente segnato tutta la sua vita. Un libro struggente, di una figlia già sufficientemente grande per vedersi togliere, con quell’arresto mattutino in casa, lei ancora a letto, quattro anni della sua infanzia: un vuoto che nessuno mai più potrà colmare e che l’accompagnerà fino all’età di nove anni e ancora dopo, perché, in altri momenti salienti del comunismo jugoslavo, vedrà suo padre essere di nuovo arrestato (seppur non più rinchiuso in quel terribile lager dell’Adriatico settentrionale).
L’occasione di questa ricognizione famigliare le è data da un viaggio nell’isola nuda che Dunja, ormai ultracinquantenne, dopo una esitazione durata tutta una vita, ha trovato il coraggio di fare, mescolando i suoi ricordi, le sue emozioni, le sue paure, con pagine di un diario di quella esperienza che il padre, morto un mese dopo Tito, le ha lasciato.

Oggi sull’isola, sempre disabitata, meta curiosa di qualche turista più informato degli altri, restano i pochi edifici abbandonati e decaduti in cui i prigionieri – laceri, malnutriti, doloranti per le punizioni corporali a cui erano sottoposti sia dalle guardie che dagli altri prigionieri, che dovevano così dimostrare la loro rieducazione avvenuta e guadagnare, se possibile, la libertà – venivano rinchiusi dopo una giornata trascorsa a spaccar pietre o scavare sabbia dentro un metro di mare, con la quale caricare «una specie di carretta senza ruote, una sorta di lunga portantina chiamata tragac, la ziviera». E, questo, con ogni tempo, che su quell’isola è sempre gelido d’inverno, atrocemente caldo d’estate, e con l’incubo perenne del famigerato bojkot, l’isolamento e il boicotaggio da parte degli altri prigionieri, che offendevano il malcapitato di turno, lo prendevano a calci e a sputi, senza mai dover reagire per non veder aumentare la dose.

La visita dà modo a Dunja di ritrovare quel padre assente in quegli stessi anni in cui lei a Belgrado viveva, al cospetto degli altri, anche dei bambini come lei, l’umiliazione di una colpa che aveva a che fare con quell’idea comunista che, nella migliore buona fede, lo aveva sempre guidato. Emerge, dai suoi ricordi, anche la storia della sua famiglia, del fratello più piccolo, del nonno che aveva preso il posto del padre, il quale più tardi, lasciato dalla moglie, si sarebbe unito a un’altra donna, Boza, con la quale anche Dunja sarebbe vissuta al suo ritorno. Il senso di quest’ultimo sta tutto in quella pagina in cui il padre le riappare per la prima volta, dopo 4 anni di golgota, fuori della scuola dov’era andato ad aspettarla e verso il quale non sa come comportarsi, tanto le era diventato estraneo.

Il volume è anche corredato da alcune fotografie, in bianco e nero o seppia, sia di Goli Otok oggi, sia della famiglia allora, Dunja bambina, che, nell’apparente normalità, tradiscono sguardi e atteggiamenti di malinconica felicità. Per una vita che non è più la stessa.

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