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Gli screanzati snobbano Pola (Corriere della Sera 29 ago)

Tra i molti festival letterari c’è pure quello di Pola, previsto per l’autunno. Non ha la risonanza — ovvero i mezzi — di altri di forte richiamo. Ma è da anni una ricorrenza di tutto rispetto, un’occasione di incontri che si svolgono con grande stile nella scelta degli autori, fra i quali pure alcuni fra i maggiori e più noti internazionalmente, e soprattutto dei temi. Inoltre il festival di Pola è una finestra sul mondo culturale dell’Europa sudorientale, un festival-frontiera tra diverse culture, che offre scoperte di scrittori e di opere poco conosciute da noi.

Il festival di Pola, aperto alle letterature di più vari Paesi, da qualche anno dedica particolare attenzione alla comunità italiana — una comunità che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, ha avuto momenti di grande difficoltà, affrontati con ferma dignità, pagando, insieme agli italiani dell’Istria e di Fiume, il prezzo per le violenze inflitte dal fascismo (e, sia pure in misura molto minore, già prima) agli slavi e, in certi periodi, subendo le ritorsioni nazionaliste di un regime totalitario come quello titoista, sia pure imparagonabile agli altri regimi comunisti e capace di evolversi verso forme sempre più aperte e tolleranti.

Una presenza di scrittori italiani a Pola sarebbe, oltre che fruttuosa per essi, pure un’attestazione di vicinanza all’italianità d’oltre confine. Gli organizzatori del festival hanno rivolto, con particolare attenzione, un invito a molti scrittori ed editori italiani. Spesso non hanno avuto nemmeno risposta. Ovviamente, incalzati come spesso si è da impegni e sollecitazioni, non è possibile accettarli tutti e nessuno ha l’obbligo di andare né a Mantova né a Pola. Ma nemmeno rispondere a questo invito, a questo segno di stima (che non è detto sia sempre meritato), è una cafonaggine penosa, uno sgarbo a chi viene considerato non abbastanza importante per essere trattato con normale educazione.

Una cafonaggine spesso inconsapevole e dunque tanto più volgare, perché rivela una volgarità divenuta modo di essere, divenuta la natura stessa della persona. Uno sgarbo minimo e irrilevante, certo, ma un piccolo indizio di un’Italia screanzata e piccina. Per simili atteggiamenti, e per le persone piccine piccine picciò che li assumono, Biagio Marin aveva un’espressione assai colorita, che nemmeno i tempi disinvolti e spregiudicati in cui viviamo consentono di riportare sul «Corriere».

 

Claudio Magris

“Corriere della Sera” 29 agosto 2012

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