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Fianona, una città dimenticata (Voce del Popolo 15 nov)

Incute tristezza, tanta ma tanta tristezza in chi la visita, la bella Fianona. Oggi più di ieri. Oggi più che mai. Quel che rimane – il pococchio che rimane – del nucleo storico ormai quasi disabitato di quest’antico borgo, che s’erge quasi dietro l’angolo del promontorio che s’affaccia da una parte su uno dei più begli squarci del Golfo del Quarnero e dall’altra su uno dei due fiordi dell’Istria, sono dei ruderi. Rovine, spopolate dall’esodo prima e dall’inquinamento industriale poi, tra le quali i gatti randagi sono da tempo assai più numerosi degli abitanti. Al nostro incedere fuggono. Scappano tra le macerie di quelli che un tempo erano imponenti e splendidi palazzi signorili pieni di vita, dai portali monumentali e dai balconi fioriti, ma che oggi danno a ciò che resta delle calli di un tempo, un aspetto terribilmente tetro, quasi spettrale. Si dileguano sgattaiolando, svelti come saette, in attici e cortili abbandonati, invasi dai rovi; vecchie cantine ricolme di legna marce e ferri arrugginiti, prive ormai da decenni di porte e finestre; angusti passaggi che un tempo – ma un tempo assai lontano – portavano forse in stalle e granai. Se non fosse per un piccolo micio rossastro dagli occhi verdi che accucciato all’angolo di una gradinata mezza divelta ci osserva intimorito, sarebbero tutti grigi e neri anche loro, come tutto ciò che li circonda.

Neanche la naturale bellezza del fiordo verde azzurro di Fianona, che con lievi curve sinuose penetra per ben quattro chilometri nel cuore del Carso istriano, riesce a lenire il senso di sconforto che ci attanaglia. Anzi, l’immensa alta ciminiera della termocentrale che ne deturpa orribilmente il panorama, non fa che acuirlo ancora. Fianona ci fa ritornare in mente la triste storia di Cenerentola. Quanto sarebbe bello incontrare in uno qualunque dei tanti tristi angoli di questo luogo abbandonato da tutti, quella famosa fata che, se ben ricordiamo, era in grado di tramutare le zucche in carrozze e i topi in cavalli e supplicarla di prestarci soltanto per un attimo la sua bacchetta magica. La useremmo con estrema parsimonia. Ci accontenteremmo delle sue virtù soltanto per trasformare i gatti in manovali e la polvere in cemento. Avremmo bisogno di qualche altro tocco miracoloso per tramutare gli sterpi e l’edera in grosse travi e le pietre e i sassi disseminati un po’ ovunque in tegole. A pensare al resto poi, saremmo noi. Daremmo ai muratori il compito di ricostruire tutto. Casa dopo casa, palazzo dopo palazzo. Il più bello, una volta rinnovato, quello ancora tutto adorno di stemmi gentilizi che ha un bel balcone troppo orgoglioso per crollare, che s’erge al di sopra del vecchio portone abbellito da un mascherone baffuto, lo regaleremmo alla fata, in segno di riconoscenza e gratitudine. Poi non resterebbe che far rivivere il borgo. Ripopolarlo di gente. Chiediamo troppo. Sogniamo ad occhi aperti. Eppure un tempo Fianona doveva essere proprio così. In un passato lontano, assai lontano, le salde mura di questo minuscolo abitato ressero per secoli e secoli ad attacchi e ad assalti che arrivavano dall’entroterra e dal mare. Resistettero a cannonate e a scorribande di pirati e di Uscocchi. Ma poi hanno perso la battaglia più dura: la lotta contro il tempo. E a cavallo tra il secondo e il terzo millennio hanno ceduto al più completo stato di abbandono. E dire che nell’ormai lontano 1800, quando Fianona era ancora piena di vita, il console inglese a Trieste, Richard Burton, durante una sua visita in Istria la definì una cittadina orribile. Se a quei tempi ebbe quell’impressione, non osiamo immaginare ciò che direbbe oggi che è tutta un rudere. Su Fianona sta crollando il mondo. Reggono ancora – chissà, forse proprio per grazia divina – le mura dei palazzi che si adagiano, con due archi a volto, a quelle ancora forti e possenti dell’antica chiesa dedicata alla Beata Vergine Maria e della casa del parroco. Ma neanche lui vive più qui. Se ne sta a Chersano. E resiste imperituro, all’entrata nel borgo, l’antichissimo palazzo comunale del XVI secolo, detto la "Tura", il cui pianterreno è stato trasformato in lapidario ed il cui accesso è protetto da un’inferriata in ferro battuto. Aveva un tempo funzione di Loggia.

Ovunque, qui tutto è silenzio. Un tacere quasi tombale. A romperlo, di tanto in tanto, quasi a voler disturbare apposta il sonno di spettrali, immaginari fantasmi, arriva lo stridulo vociare di qualche gabbiano solitario. E anche quello stridere irrequieto, seppur naturale, urta. Punge i timpani. Lede l’udito. Fa star male. Perché è come se fosse un lamento; un gemito; il grido disperato di chi non può far altro se non inorridire e piangere nel vedere intorno a sé tanta tristezza. Come quel gabbiano rabbrividiamo anche noi vieppiù che ci addentriamo all’interno del borgo. Tutto è in rovina. Quel che ancora sta in piedi ha i giorni contati: rischia il crollo.

Fa eccezione la chiesetta di San Giorgio il Vecchio, rinnovata di recente. Il restauro è stato eseguito ad opera d’arte. Il portale del campanile della chiesa che per tantissimi anni era rimasto murato è stato riaperto. All’interno della torre, che è alta una quindicina di metri ed ha ancora la sua vecchia campana, sono stati installati durante l’accurato intervento di restauro anche i cavi della corrente elettrica nell’eventualità che un domani quella campana ritorni a suonare. Anche se il campanaro non c’è più. Anche se ad udire quel din don saranno soltanto le poche anime che ancora popolano la nuova parte del paese, lassù, lontano oltre la strada. Ma ben venga quel rindondio. Sarà almeno di conforto alle tante anime dei fianonesi che non ci sono più. Ai tanti Bacchia, Donati, Di Giusto, Files, Giuliani, Massalin, Tonetti, Orlini, Polidrugo, Muscardin, Fragiacomo, Vossila, Vesselizza sepolti in lidi lontani e a quanti tra i loro famigliari, hanno avuto la fortuna di riposare in pace nel piccolo cimitero del luogo, che con la sua chiesina con campanile a vela dedicata a San Giovanni Battista, si trova su una collinetta che da qui dista appena poche centinaia di metri in linea d’aria.

Le pietre della facciata e delle mura della chiesa di San Giorgio e quelle del suo piccolo campanile sono oggi di un bianco avorio quasi sgargiante che adesso quasi stona in confronto alle mille spente tonalità di grigio delle poche vecchie costruzioni che la circondano, alcune delle quali appaiono ancora integre quasi per miracolo, accanto a tante altre che, invece, sono oramai pericolanti

San Giorgio è un monumento d’arte sacra di periodo romanico con abside inscritta, che rappresenta un raro esempio della creativa architettura di quel periodo in Istria. Con la sua struttura murale fatta di massicci macigni oblunghi disgrossati, le sue piccole bifore, il classico ornamento a piccoli archi pensili appena accennati incastonati come diamanti tra una serie di grossi blocchi di sasso posti sotto il tetto e la composizione ornamentale fatta con le pietre d'imposta che sostengono l'arco trionfale, sono una delle testimonianze più espressive d'arte sacra di quell’epoca. È bello davvero vederla risplendere così, completamente rimessa a nuovo. Per fortuna, almeno quella. Ma per chi? Per i pochi turisti che passando per di qua d’estate si fermano per darsi un’occhiata intorno, perché i più tirano dritti dritti ad Albona e a Rabaz, poiché hanno in mente soltanto vacanza di mare e sole. O per qualche raro ed occasionale visitatore che, come noi, arriva qui fuori stagione, fa un giro, si accontenta di non incontrare anima viva, salvo quattro gatti e qualche striminzita gallina razzolante e poi va a prendere un caffè e un panino, là oltre la strada, dalla mitica “Dorina”, quell’osteria alla quale un tempo, quando ancora non esistevano trafori sul Monte Maggiore e veloci e moderne semiautostrade, sostavano immancabilmente tutti i pullman di linea che facevano spola tra Fiume e Pola? Bei tempi. Tempi in cui da “Dorina” ti ritrovavi praticamente costretto a commettere il classico peccato di gola, perché non riuscivi proprio a resistere alla tentazione di mangiarti un panino imbottito con vero squisito, tenero e profumato prosciutto istriano e concederti a un bicchiere di buona, bianca, malvasia. E quando ci si arrivava in compagnia, con vecchi amici o con colleghi di lavoro, magari venendo fin qua in macchina da Fiume o da Pola soltanto per togliersi lo sfizio del panino al prosciutto crudo, si finiva immancabilmente a commentare la triste sorte toccata a Fianona. Da qui tutti se ne sono andati, ti raccontavano i pochi rimasti. Prima a causa dell’esodo. Poi per l’industrializzazione e l’inquinamento. Succedeva trent’anni fa. Da allora qui poco o nulla è cambiato. Anzi, se è cambiato qualcosa è cambiato in peggio. Il borgo antico è anche oggi deserto e spopolato: le vecchie case versano in uno stato ancor più pietoso di prima. Sì qualcuno dei pochi abitanti rimasti si è fatto una casa nuova ma dall’altra parte della strada. Su insistenza dei cocciuti e testardi operatori dell’Istituto alle belle arti dell’Istria che oggi fa capo al ministero per la cultura, in primo luogo del professor Ivan Matejčić, grande intenditore di interventi di tutela del patrimonio artistico della penisola ben consapevole dell’immenso valore che hanno gioielli d’arte sacra di questa categoria, dentro al centro storico hanno rinnovato l’antica chiesa di San Giorgio. Ma per il resto oramai è tardi per ogni recupero. È troppo tardi ormai per salvare Fianona.

Tutt’a un tratto inizia a piovere. Su Fianona ormai – purtroppo – piangono tutti: anche le grigie nubi che in quest’autunno uggioso e ormai avanzato, la sovrastano.

L’ordalia, il Giudizio divino dell’acqua bollente

Nel XIV secolo, a Fianona era ancora in uso l'ordalia, detta anche Giudizio della caldaia, che avveniva in pubblico. L'ordalia (dal tedesco antico ordal, che significa "giudizio di Dio") era una pratica giuridica con la quale l'innocenza o la colpevolezza dell'accusato venivano determinate sottoponendolo ad una prova assurda e dolorosa. Si trattava di prendere con la mano un sassolino che veniva posto in fondo ad una caldaia piena d'acqua bollente. L'accusato aveva a disposizione tre tentativi per togliere con immersione della mano il sasso dall'acqua, a volte fino ai polsi, in altri casi fino ai gomiti. Se la prova riusciva c'era la controprova: la mano veniva infilata in un guanto di paraffina e lo sfortunato veniva trasportato nella loggia cittadina. Lì rimaneva per tre giorni sotto l'occhio di una guardia, dopo di che veniva levato il guanto sigillato. Nei casi in cui la mano non mostrava segni di bruciatura, l'accusato veniva assolto dalle sue colpe. In caso contrario veniva ovviamente condannato. In questo tipo d’ordalia l'acqua simboleggiava il diluvio dell'Antico Testamento. Come il diluvio spazzò via i peccati così l'acqua doveva "pulire" l'anima della persona e visto che l’ordalia prevedeva l’intervento divino, era necessario che un ecclesiastico benedicesse l’intera operazione.
Comune in tutto il mondo nel lontano passato, questo tipo di processo sopravvisse in certe parti dell'Europa occidentale fino al XVI secolo. Gli elementi dell'ordalia dell'acqua erano solitamente sotto il controllo e la supervisione del clero locale. Le registrazioni giudiziarie di questi procedimenti di cui si conserva traccia negli archivi indicano che un discreto numero di accusati veniva comunque scagionato dall'ordalia poiché i sacerdoti conoscevano bene i loro parrocchiani ed evitavano di sottoporli a questa prova salvo che non si trattasse di accuse di omicidio o di stregoneria. Di simili atroci procedure parlano diversi antichi statuti istriani e quarnerini, tra cui, oltre a quelli di Fianona anche atti di Cherso, Ossero, Albona e Arbe.

La parrocchiale della Beata Vergine

Costruita nel 1483, la parrocchiale della Beata Vergine, di Fianona, nota anche come chiesa della Maddalena, era in un lontano passato chiamata “Templum” come si rileva su un’incisione scolpita sul vecchio portone laterale d'ingresso e sul quale sono incise anche le tavole di Mosè riportanti i numeri latini. Situata subito dietro il portico dell'entrata nel borgo, è una costruzione a pianta rettangolare di media grandezza e a navata unica che in origine era in stile gotico ma che ha poi subito modifiche con il passare dei secoli. Poggia su un terrapieno sostenuto da un muraglione. Il campanile a torre, in stile romanico, ha quattro piccole guglie agli angoli della base quadrata della bassa cuspide e le colonne centrali delle finestre bifore in calcare sono decorate con dei bellissimi mascheroni che formano la base delle piccole volte. Al suo interno la chiesa ha cinque altari, uno dei quali policromo in stile rinascimentale in legno scolpito che risale al XVII secolo. Quello principale è decorato con una pala d’altare del 1893, opera del Lucas, che raffigura San Giorgio, patrono di Fianona. Dello stesso artista sono anche le raffigurazioni della Via Crucis e la pala della Mater miraculosa che abbellisce uno degli altari laterali in marmo. Il fonte battesimale in pietra protetto da un coperchio di legno è decorato con le sculture di cinque Santi. Nel 1994 all’interno della chiesa sono stati scoperti dei bellissimi affreschi. Sulla facciata orientale dell’edificio sacro, vicino al portone d'entrata, sono incastonate due lapidi con delle iscrizioni su pietra, entrambe del 1473, abbellite dagli antichi stemmi delle famiglie più illustri di Fianona e un terzo scudo gentilizio barrato che riporta scolpita la data dell’8 marzo 1530.

Ciminiere ovunque, anche
per la porchetta allo spiedo

A Fianona anche i pochi, rari abitanti che ancora popolano le case del borgo sembrano aver cambiato abitudini. Dopo aver attraversato i sentieri in terra battuta che circumnavigano le vecchie mura avvinte dall’edera di quello che un tempo era il nucleo storico della cittadina, siamo sbucati nel cortile di una delle poche case ancora abitate, ai margini estremi della parte del paese che dà sul versante dal quale la vista spazia su quello che è forse il più tetro panorama dell’Istria. Da un lato infatti il panorama dà su quell’enorme colosso industriale che è la termocentrale e in primo piano domina la sua immensa ciminiera; dall’altro l’occhio va immancabilmente a poggiare sulle falde della collina del piccolo vecchio cimitero. Nel cortile di cui dicevamo, due enormi cilindri di zinco che a prima vista almeno, hanno tutte le sembianze di quei serbatoi in cui le stazioni di servizio tengono di solito la benzina. Ma quando notiamo che anche i due grossi recipienti quasi a voler ispirarsi al panorama di cui parlavamo, hanno anche loro entrambi delle ciminiere dalle quali fuoriesce del fumo, capiamo che i nostri conti proprio non quadrano. Riflettiamo e siamo ormai quasi sul punto di supporre che quella strana specie di moderni alambicchi siano una sorta di distilleria. Chissà forse servono a fare della grappa. Un attimo dopo vedendoci interessati alla sua invenzione sull’uscio della casa accanto si affaccia il padrone di quegli strani aggeggi. Chiediamo lumi e scopriamo che anche la nostra seconda supposizione era errata. Si avvicina ad uno dei due misteriosi ordigni, spalanca uno sportello che ha tutte le sembianze di una specie di oblò e scopriamo che era ben altro ciò che stava… bollendo in pentola. I due grossi recipienti cilindrici non sono altro che dei rudimentali forni a legna. E al loro interno stanno facendo la loro triste fine due maialini. Porchette finite allo spiedo insomma, ma in una maniera alquanto insolita.

 

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