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Esuli: impegno reale e finti obiettivi

Per dare un senso compiuto al nervosismo che pervade in questo periodo alcuni soggetti nel mondo degli Esuli, ma di cui spesso la base ignora comportamenti e prese di posizione, pubblichiamo l'attenta analisi della Direttrice del nostro mensile "Difesa Adriatica", che sul numero di giugno chiarisce in maniera lineare ciò che sta avvenendo.

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Gli ambienti degli esuli sono attraversati da qualche tempo da inquietudini e  insofferenze che hanno condotto alcune associazioni ad assumere posizioni nettamente distanti e fortemente critiche dalla Federazione, accusata di muoversi con lentezza e in maniera inadeguata rispetto agli interlocutori di governo e ai problemi, non pochi, che perdurano circa la tutela dei diritti dei profughi giuliani e dalmati.
Di questi dissensi non diremo il “colore” spesso eccessivo e non di rado, anzi quasi sempre, offensivo delle persone accusate addirittura di “intelligenza con il nemico” (cioè con i governi e con la classe politica), perché non credo interessino i nostri Lettori e la totalità degli esuli, ai quali va invece garantito un impegno costante e concreto. Ci interessa piuttosto fare qualche considerazione sulla natura e sulle ragioni di questi atteggiamenti così drastici e feroci nei confronti di quanti, assunta la dura responsabilità di interloquire con la controparte istituzionale e politica, si ritrovano esposti ovviamente alle più ingenerose critiche.
 Chi abbia una qualche conoscenza storica degli ambienti per così dire minoritari quali si sono configurati nel corso del Novecento in tutta Europa, sa che sono terreni di coltura di aspettative, di frustrazioni, di tensioni. La tragedia vissuta si depone nel cuore, o per meglio dire nelle viscere, di quanti l’hanno patita per trasformarsi nel tempo in un grumo cristallizzato, immutabile. O, per altro verso, è consapevolmente rimossa (ma apparentemente), per necessità o per istinto di sopravvivenza. Metabolizzare l’ingiustizia sofferta è un processo psichico complesso, richiede molto tempo, risorse interiori profonde e non sempre inesauribili. Per questo guardare alle cose con lucidità è difficile, e si rischia di restare fermi al minuto della tragedia subita.

 Ora, perseguire la giustizia non significa restare ancorati agli scenari di sessant’anni fa. Chi ha il dovere di operare nel presente e di guardare avanti con onestà intellettuale e ragionevolezza, non può essere come la statua di Lot, rivolta al passato; né può cavalcare demagogicamente lo scontento, l’insofferenza (più che giustificati, certamente) della categoria.
Le ipotesi sono due: o si prosegue nel faticoso e annoso percorso del confronto con le parti (governo, pubblica amministrazione, enti locali, etc.), o ci si colloca su un isolotto e si dà fuoco alle polveri degli anatemi. La prima ipotesi, che richiede una pazienza di Giobbe e uno stomaco più che forte, insensibile, porta a qualche risultato (tardivo, ovvio; cambiano le maggioranze ma le risorse per i profughi giuliano-dalmati sono sempre poche). Nella seconda ipotesi si costruiscono castelli di carta, sogni della materia delle nuvole, finti obiettivi buoni a riempire di sciocchezze i «blog» di  nullafacenti e a giustificare le ambizioni di qualche dirigente più o meno rampante.
 La prima ipotesi prevede il lavoro costante e quotidiano, la disponibilità a rispondere alle domande di ogni giorno e di sempre, alle richieste di aiuto; nella seconda ci si può permettere di immaginare grandi scenari sospesi in aria e deserti.
 Le domande, elementari, sono queste: quali sono gli strumenti migliori per guadagnare quel che è possibile in termini di risarcimento (non soltanto materiale) agli esuli per quanto perduto (beni, ambiente, prospettive)? Di contro, detto crudamente, quale peso esercita oggettivamente la comunità dei profughi sulla bilancia delle relazioni con gli interlocutori istituzionali? Ciascuno rifletta.
 Gli immaginifici proclami di alcuni rieccheggiano nel vuoto: escluse le ipotesi di manifestazioni violente, di atti inconsulti, estranee allo spirito e alla civiltà dei giuliani e dei dalmati, resta soltanto la via paziente e irta della trattativa ad oltranza, che richiede scontri e conflitti quotidiani con le istituzioni, di cui questi signori – si fa per dire – non hanno la minima idea non avendolo mai fatto. Ed è proprio questa la via che eespone alcuni rappresentanti della Federazione al fuoco amico dei cecchini di casa, che li colpiscono alle spalle mentre sacrificano a questa lotta ogni loro energia.
 Nessuno ha mai escluso la possibilità di manifestazioni unitarie collettive di una certa consistenza numerica, in luoghi significativi, come a Roma. Ma ogni volta che si è arrivati al dunque non è stata certo l’ANVGD a tirarsi indietro, essendo del tutto in grado di collaborare efficacemente alla loro realizzazione. L’azione di pressing popolare rimane uno strumento essenziale delle democrazie per raggiungere risultati ritenuti giusti come certo sono i nostri. Ma allora lo si faccia insieme. Altrimenti le accuse si perdono nelle nebbie di un velleitarismo parolaio teso soltanto a raccattare consensi marginali, privi di ogni concretezza di programma.

Patrizia C. Hansen

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