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Dalmazia: mare, sole… mine (turistipercaso.it)

La Dalmazia è una terra importante. Direi strategica nello scacchiere internazionale. Lo è per almeno tre validi motivi: per aver dato i natali allo stilista Ottavio Missoni, al tennista Goran Ivanisevic e a mio nonno. Dalmata di Trogir. Anzi, di Traù, ci tengono a precisare alcuni.

In una breve chiacchierata proprio con Ottavio Missoni, mi trovavo a quell’epoca nella sede della Regione Lombardia a Milano – altrimenti detta Pirellone -, ebbi la sventura di confidargli che mio nonno è di Trogir. Non lo avessi mai fatto. “Si dice Traù,” mi urlò Missoni, “suo nonno non gliel’ha mai detto?”
Me l’aveva detto, eccome. Soltanto che al momento mi venne da dire Trogir. Mi presi, quindi, un cazziatone di proporzioni monumentali, facendo una figura di merda strepitosa davanti a tutta la giunta regionale. Questo perché molti dalmati, Missoni compreso, sono orgogliosi. Ci tengono alle loro origini e non vogliono che si facciano pasticci antistorici. Tanto da risultare permalosi.

Ho fatto questa indispensabile premessa per far comprendere perché, in questo reportage, non parlerò di Croazia, bensì di Dalmazia, e perché coniugherò la gran parte delle zone geografiche in italiano. Lo farò per due motivi piuttosto scontati: per non ricevere una querela da Missoni e per non perdere l’eredità di mio nonno (una straordinaria collezione di canne da pesca alla quale tengo moltissimo).

ODISSEA ANCONA-SPALATO, ANDATA E RITORNO
Si dice che il tempo sia un’estensione dell’anima. Può essere. Di sicuro lo è per gli armatori della compagnia che fa servizio da Ancona a Spalato e che, con evidente deficit percettivo, hanno definito i loro vettori navi veloci. Nemmeno a dirlo, il viaggio che avrebbe dovuto durare quattro ore e 30 minuti, all’andata durò cinque ore nette, al ritorno sei abbondanti. Senza contare che al rientro, una volta approdati al porto di Ancona, cominciarono quelle che potrei definire doglie.
Il travaglio della nave durò un buon 40 minuti, dopo di ché, a dilatazione completata, la chiglia ci sgravò finalmente sulla banchina. In preda ad allucinazioni, scambiai i doganieri per degli ostetrici ed alla consegna dei documenti dichiarai: “Sono un bel maschietto e peso 75 chili.” Questo per dire che le operazioni di sbarco mi sembrarono piuttosto macchinose.
Le due attraversate, inoltre, non furono disgiunte dalla presenza in stato di veglia di nostro figlio: Tommaso. Un piccolo angelo di un anno e 11 mesi (sette mesi per la compagnia di navi).
Chi è genitore lo sa benissimo. A quell’età, i pargoli, sono curiosi ed infingardi. Tendono a scoprire il mondo e sono pieni di energia. Di contro, le navi sono piene di tranelli e pericoli, sottoforma di botole, scalini metallici, parapetti insufficienti e, soprattutto, tanto mare circostante. Orbene, per evitare di lasciare Tommaso in balia dei flutti a 50 miglia marine dalla costa, io e mia moglie Rosanna percorremmo all’incirca 100 chilometri terrestri cadauno, all’inseguimento del vivace angioletto. Alla fine delle due attraversate abbandonammo i consueti vezzeggiativi – patatino, topolino, pallino –, con i quali solevamo rivolgerci all’angelo, con i più calzanti: bastardo, canaglia, assassino.
Ma non tutti i mali vengono per nuocere. Oggi conosco la morfologia di una nave a menadito, bullone per bullone. Ponte, coffa, sentina, paratia, non c’è un solo dettaglio del piroscafo che mi sfugga, tanto che potrei entrare nel settore navale come progettista e fare soldi a palate. E’ del tutto evidente che la prima nave che progetterò si chiamerà come mio figlio: Hannibal Lecter.

PRIME IMPRESSIONI
L’arrivo in Croaz… Ops, Dalmazia, ci spalanca subito una realtà abbastanza simile a quella italiana. L’entroterra sembra quello della Sardegna, il mare è paragonabile a quello migliore della Sicilia, i prezzi, fortunatamente per noi, sono quelli della Dalmazia. Il ché significa vantaggiosi, ma non tantissimo. In ogni caso, mischiando tutto nel classico calderone qualità-prezzo, beh… La Dalmazia straccia una caterva di località italiane. E non è il mio quarto dalmata che parla.
Il turista è immediatamente sorpreso da una piacevole presenza. Quella delle ausiliarie del traffico. Se in Italia si presentano solitamente in sensibile sovrappeso, incarognite come un lottatore di Sumo costretto in una Beauty Farm e in grado di sparare contravvenzioni con la frequenza di un Kalashnikov, in Dalmazia si pongono subito in maniera diametralmente opposta: minigonna da paura, biondo platino d’ordinanza, tacco alto, nessuna intenzione di fare multe. La cosa, a dire il vero, può generare nel turista sgradevoli equivoci, ma ci offre anche l’idea di come l’assessorato alla viabilità di Spalato sappia – per così dire – curare le pubbliche relazioni.
Insomma, appena approdati in Dalmazia ci si rende conto che la carne la fa da padrona. Delle ausiliarie abbiamo detto. Ma non v’ho ancora detto dei fantastici spiedi che si incontrano ai bordi delle strade con dei Mammut interi che roteano sulla brace, invitandoti ad entrare nei ristoranti. Percorro da pochi chilometri le strade della Dalmazia che in me s’è già scatenata una tempesta di endorfine, testosterone e succhi gastrici. Al punto da immaginarmi Alba Parietti vestita da ausiliaria appesa ai ganci del mio macellaio di fiducia con una mela in bocca e una carota nel…

ORIENTAMENTO GEOPOLITICO
In Dalmazia è pressoché impossibile sbagliare strada. Da una parte c’è il mare, dall’altra le montagne. Le opzioni sono quindi due: andiamo su, andiamo giù. Noi, dobbiamo andare su, direzione Primosten. Ciò nonostante, un’occhiata alla cartina la diamo lo stesso. Ed è in quel momento che ci rendiamo conto di chi ha vinto la tragica guerra civile che ha disintegrato la Jugoslavia dal ‘91 al ‘95, ma soprattutto di chi l’ha persa.
La cartina ci mostra che la Dalmazia, con la Croazia, c’entra come i cavoli a merenda. Mia nonna stessa me l’ha confermato, al ritorno: “Tu sei stato in Dalmazia. Tuo nonno è dalmata, mica croato!” La Dalmazia è quella straordinaria striscia di terra, con oltre 1.000 isole, di cui soltanto un 10% abitate, che separa la Bosnia Erzegovina dal mare. Ebbene, alla vituperata Bosnia la comunità internazionale non ha lasciato nemmeno un molo sgangherato.
La Bosnia lambisce il mare per tutta la lunghezza della Dalmazia, senza potersi bagnare i piedi, nemmeno dopo tre ore dal pranzo. Coffee Annan, oggi, resosi conto di questa clamorosa ingiustizia, ha garantito che le Nazioni Unite doteranno tutti i cittadini bosniaci di una piscinetta gonfiabile un metro per uno. “Nella peggiore delle ipotesi, – ha puntualizzato Coffee, – manderò un contingente. I caschi blu sono evocativi, quando marciano ricordano il mare.”

AZZARDATA ANALISI SULLA GUERRA
Il simbolo della Dalmazia è il cane maculato, il famoso Dalmata. Chi ne possiede uno sa che si tratta di un animale cocciuto, almeno quanto Missoni e mio nonno. Ecco, quando si dice azzeccare un simbolo. La livrea del cazzuto quadrupede, rappresenta nel migliore dei modi la situazione croata, così come, immagino, quella della Slovenia, della Bosnia Erzegovina, della Serbia Montenegro e della Macedonia. Spero di non averne dimenticata nessuna.
Ogni nazione della ex Jugoslavia, in buona sostanza, contiene al suo interno villaggi ed aree non omogenei. Dalle parti di Dernis – paese di origine ottomana ad una trentina di chilometri da Sebenico, nell’entroterra – abbiamo incocciato paesi abitati da serbi. Suppongo che in Serbia ci siano villaggi bosniaci, in Bosnia aree montenegrine e in Montenegro enclave molisane.
Insomma, è un gran pasticcio. Per il turista capirci qualcosa è difficile, ma credo che anche per loro qualche crisi di identità sia all’ordine del giorno. Ecco, crisi d’identità. Quello che mi pare di aver percepito durante il lungo giro nell’entroterra è stato, azzardo, smarrimento. La furia della guerra è sopita – non il risentimento, dato che per i popoli di origine slava uno sgarro è come un diamante, è per sempre –, ma sembra che sia subentrato un senso di spaesamento. Mia nonna, Macedone di Skopje, a tal proposito ha detto: “Eravamo tutti jugoslavi, cosa siamo andati a fare!” E l’ha detto con la morte nel cuore.

BUCA, BUCA CON MINA…
Caro Marzullo, mi domando: “E’ giusto in una vacanza da villaggio turistico, improntata al mare e al relax, andare a visitare luoghi un tempo teatro di sanguinosi combattimenti?” Mi rispondo: “Credo di si.”
Non c’è nulla di male o di morboso nel vedere con i propri occhi o percepire con la propria sensibilità le conseguenze di un conflitto tanto accanito e così vicino, sia geograficamente sia nel tempo. Le Tv ne parlano in continuazione, ma esserci è differente. Un momento di riflessione, anche durante una vacanza, non credo guasti. E questo vale anche per uno scanzonato reportage.
Prima di raggiungere Dernis, mi cade l’occhio, sulla destra della carreggiata, su un cartello che segnala pericolo. “Strano, – penso, – non ci sono tralicci dell’alta tensione.” Mezzo chilometro più avanti ne vedo un altro. Poi un altro ancora. Accosto, non ci sono più dubbi: PRILAZITE MINES. Pericolo, mine!
Più avanti, un filare di case distrutte. Enormi fori tondi, squarci inequivocabili. E tutt’intorno mine, tante mine. Chilometri e chilometri coltivati a mine, segno di una guerra spietata, combattuta casa per casa, cortile per cortile. Diamo un altro sguardo alla cartina, siamo ad una trentina di chilometri ad Est di Sebenico. Mostar si trova ad almeno 200 chilometri a Sud. Per arrivare a Sarajevo ce ne vorranno 300, verso Sud-Est. Occhio e croce, altri 100 chilometri per raggiungere Srebrenica. Quanto è stata vasta questa follia? Di quanto immenso furore è capace l’uomo?

NEMA PROBLEMA
Oltrepassato il meraviglioso parco naturale di Krka (da visitare assolutamente) ci dirigiamo su un insidioso viottolo sterrato verso Deverske, piccolo borgo raso al suolo durante il conflitto. La strada finalmente torna asfaltata ma in quel momento scatta l’emergenza cibo. Lecter deve mangiare. Allarme rosso! Priorità assoluta su priorità assoluta! Mia moglie Rosanna mi intima l’alt, io comincio a sudare. La serenità diventa frenesia nel giro di 2 secondi. Rosanna ha preparato uno stuzzicante pranzo al sacco: panini, prosciutto di Praga, Yogurt, nutelline e banane, trafugati dal buffet. Ma per consumarli serve uno spiazzo gradevole, ombreggiato, con panchine accoglienti e un eunuco sufficientemente obeso dotato di ventaglio fatto con rami di palma intrecciati. Il tutto da trovare entro 37 secondi.
“Là non andava bene? Perché non hai girato? Allora, ci fermiamo? Lecter ha fame!” Sono stritolato dalla pressione e comincio a cigolare come lo scafo di un sommergibile sul fondo della Fossa delle Marianne. La tensione si taglia a fette.
“Uffa! Non lo tengo più! Cosa aspettiamo? Ancora vai avanti? Hannibal deve mangiare!”
Devo agire. Le tempie mi pulsano, il battito cardiaco è accelerato, sono dannatamente sotto pressione, devo gestire la situazione con calma, ma devo agire. Vedo una spiazzo, forse va bene, il tempo passa, devo agire. Accosto leggermente, devo agire, svolto deciso nello spiazzo, la macchina sobbalza, s’imbarca, SBADABAM!!!!
Non è una mina, ma un fottuto tronco tagliato nascosto nell’erba alta. Il botto è spaventoso. Le conseguenze, probabilmente, nefaste. Dentro di me bestemmio in cirillico, ma soltanto per rispettare le tradizioni locali. Scendo, guardo sotto la chiglia, la macchina gocciola. Fossimo stati a Medjugorje avrei potuto sperare che piangesse. In realtà può trattarsi del peggio. Ottimisticamente dico: “Forse è la condensa dell’aria condizionata.” Ma all’accensione della macchina il raglio di un somaro castrato mi suggerisce la peggiore delle ipotesi. Da grande meccanico quale sono, stilo una diagnosi scientifica: “Cara, credo che la macchina sia cordialmente andata affanculo.”
Ok, manteniamo la calma. Macchina distrutta, non resta che valutare la situazione. Zona semi desertica. Di tagliare giù per i campi, non se ne parla. Non siamo ad Alba, sotto terra non ci sono tartufi, bensì tuberi a frammentazione. Probabilmente italiani, ma tutt’altro che cordiali.
Lecter sta addentando il suo panino, per un po’ è neutralizzato. C’è una casetta di contadini. Non mi rimane altro da fare, sono l’uomo, porto i pantaloni, devo agire: AIUTOOOOO. Apro timidamente lo sgangherato cancelletto in legno. Inquietante cigolio. Faccio qualche titubante passo nella proprietà: “Permesso, scusate, AIUTOOOOO.” Esce un signore alto un metro e 90. Occhi ravvicinati, fronte spaziosa, postura bovina… Niente paura, Lombroso era un pirla.
Non imbraccia il fucile. E’ già qualcosa. Pesco in qualche sperduto antro del mesencefalo tutte e 100 le parole di inglese che conosco: “Sorry… I crash my car… Big Broblem!” Lui risponde: “Big problem? Nooo, small problem, altri big problemi, no questo. Sit down, nema problema.”

MARCEL MARCEAU
Dalla casetta uscirono tutta una serie di parenti e amici. L’accoglienza fu eccezionale. Della macchina non si curò nessuno, in compenso ci prepararono caffé turco e aranciata. Terminati i lunghi convenevoli, mi scortarono a pochi chilometri di distanza – la macchina sferragliava ma procedeva –, dove un robusto meccanico mi domandò:
“Sprichensidoic?”
“No, – risposi. E rilanciai. – Italiano?”
“Ne”
“Francese?”
“Ne”
“Inglese?”
“Ne”
“Ok, mimo.”
Fui eccezionale, Marcel Marceau non avrebbe saputo fare di meglio. Mimai l’impatto, il tronco tagliato e la macchina che perdeva, ma poco: “No svramm… Plic, plic, plic.”
Alla fine, preso dall’entusiasmo, mi lanciai in qualche passo di break-dance e in una perfetta parodia di Jacques Tati. Una performance d’altri tempi.
Per concludere. La macchina non subì conseguenze tali da fermarla. Mia moglie e Lecter stavano bene, non erano stati rapiti. Tornato alla cascina, Rosanna mi confessò soltanto che un’ora senza capire una mazza non era stata una passeggiata di salute:
“Santo cielo, quanto ci avete messo, a furia di sorridere mi si è lussata la mandibola.”
Ad un’ora e 35 minuti dall’impatto, riprendemmo il cammino. Salutammo gli amici, di cui non indagammo il ceppo etnico – ne avevo abbastanza di ceppi – e lottai come un leone per lasciare 200 kune (circa 30 euro). Spero che non si siano offesi ed abbiano capito che era solo per il disturbo. In ogni caso, tutta questa vicenda, mi ha stimolato un interrogativo: se un pastore croato forasse nei pressi di una cascina della bassa bergamasca, il contadino nostrano si farebbe in quattro per aiutarlo come hanno fatto loro? Questa volta non mi rispondo.

TITO SI E’ FERMATO A PRIMOSTEN
Primosten è un posto molto bello. Il paese sorge su una penisola interamente occupata dall’antico agglomerato urbano. Accanto, un’altra penisola accoglie il villaggio turistico. Una struttura severa, di chiara matrice sovietica, voluta dal maresciallo Tito e ingentilita dalle sfumature del mare, dalla bellezza degli scogli e dal verde di una rigogliosa pineta. Le due penisole, scrive la guida, dall’alto somigliano alle orecchie di Topolino. Al mio arrivo, dopo sei ore di nave alle prese con Lecter, mi ricordano qualcos’altro.
Il posto è meraviglioso. Il mare è blu, azzurro, verde smeraldo. Con il sole ad una certa angolazione si avvicina a quello della Sardegna. In più, il porticciolo, accoglienti calette, senza sabbia, ma con sassi praticabili. Il buffet è grandioso e la stanza – decisamente spartana ma completa di tutto – dà su un lembo di pineta, sul mare e sull’antistante Primosten. Un sogno.
Purtroppo, proprio all’arrivo, un nubifragio ci allaga la camera e ci costringe a sfollare. Ma si tratta di un incidente passeggero. L’inserviente ci dice: “Nema problema.” E la direzione, una volta risolto il guaio, ci offre un cesto di frutta e le sue scuse.
Ci si interrogava, prima, sulle ragioni dell’odio. Sulle radici della guerra. In piccolo, credo possano valere le dinamiche che si sviluppano in un villaggio turistico. Specie se, nei pressi del buffet, convergono percentuali ben distribuite di: francesi, tedeschi, italiani, spagnoli, croati e ungheresi. Lo so, sembra una barzelletta. Ma si tratta della realtà.
Tutti si sorridono e sembrano gentili, in realtà c’è tensione. I tedeschi parlano male degli italiani, gli italiani parlano male dei francesi, i francesi parlano male di tutti. Gli ungheresi non lo so, ma di qualcuno sparleranno anche loro. Io non mi sottraggo. Premetto che amo la Francia, ho un fratellastro francese e della Gallia amo praticamente tutto. Ma caspita se è vero, sembra che abbiano tutti una scopa su per il culo! E scusate il francesismo.
Al biliardo i bambini di tutte le nazioni arrivano allo scontro fisico con una frequenza allarmante. Non riescono a metabolizzare un concetto apparentemente elementare: un tiro a testa.
C’è da mangiare per tutti, ma la tensione si percepisce. I seggioloni per i bambini piccoli sono solo quattro, i tavoli migliori sono un’esigua percentuale. Ogni famiglia ha al seguito il suo Lecter che va fatalmente a rompere le palle al tignoso virgulto di qualche altra famiglia. I genitori parteggiano per i rispettivi impiastri. Le lingue non aiutano e ne conseguono faraonici casini diplomatici. L’aggressività, l’arroganza, il pregiudizio, fanno parte della nostra natura. Non c’è niente da fare.

EPILOGO
Si diceva della natura umana. Da mie precedenti esperienze in Istria-Dalmazia, ricordavo gli autoctoni un po’ scorbutici. Della Croazia mi portavo l’immagine di camerieri ostili, baristi che mi guardavano in cagnesco, autisti scontrosi. Mi sono dovuto ricredere. Dagli incontri fatti, nessuno escluso, abbiamo notato soltanto accoglienza, gentilezza e premura. Rosanna ha addirittura dovuto respingere le avances di un attempato barcarolo dall’apparente età di 135 anni. Eravamo diretti sull’Isola di Krapani, a due colpi di remo da Brodarica.
E poi la Dalmazia, una terra straordinaria. Traù, la piccola Venezia; Spalato e il palazzo di Diocleziano; il parco naturale di Krka, un gioiello della natura con le sue insenature e le sue cascate; le isole Incoronate; la vecchia Ragusa. Un paradiso per i velisti e non solo, data l’assenza di bagni Pino, Ciro e Iolanda a precluderti l’accesso al mare. E come se non bastasse, la Dalmazia è vicina. Scusate se è poco.

Antonio Voceri

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