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Corriere della Sera – 210607 – Resa dei conti nell’afa dalmata

di GIORGIO MONTEFOSCHI

Quando, in un caldo mese di maggio degli anni Trenta, Victor Askenasi, professore di greco antico a Parigi, approda nel porto di Ragusa, l'attuale Dubrovnik, e va a prenotarsi una stanza in albergo, ha la sensazione improvvisa che tutto quello che sta facendo lo stia facendo un altro da sé, o lo abbia già vissuto. È la situazione tipica: vedersi come un estraneo, di chi si è smarrito. Quando si è smarrito il professor Askenasi? Non lo sa. Intanto,rinuncia al viaggio che avrebbe dovuto condurlo in Grecia. Si ferma a Ragusa. Siamo, più o meno, all'inizio de L'isola, l'ultimo romanzo di Sándor Márai pubblicato da Adelphi (pagine 174, €16,50): lentamente, come accade in quasi tutti i romanzi dello scrittore ungherese, il passato si fa strada nella coscienza e nella memoria, e dipana le nebbie del presente. Askenasi ha quarantotto anni, una moglie quieta: Anna, che gli ha dato una figlia; una vita regolata, priva di ogni sussulto. Un giorno, sulle scale della metropolitana di Parigi, incontra una donna: Eliz, che trascina una valigia; si offre di portarla lui; la accompagna in silenzio fino alla pensione di
terz'ordine nella quale abita; non chiede nulla; ordina una birra al bistrot lì di fronte; dopo un'ora, diventa il suo amante.
Eliz è una donna misteriosa. Di origine russa, fa la ballerina: potrebbe essere una stella dell'Opera, come la vedette di un locale malfamato. Un giorno, ha molto danaro; un altro,nulla. Frequenta un ambiente strano, che ben poco ha a che vedere con quello universitario. Con lei, dopo aver abbandonato la moglie nella riprovazione dei suoi colleghi, Askenasi scopre tutte le voluttà del corpo che, fino a quel momento, non aveva conosciuto. In lei, finalmente, trova «la risposta che per
quarantasette anni non aveva trovato nei libri,nella coscienza », e in nessuno degli esseri umani che ha incontrato nella vita, e mai lo hanno scosso dal suo mesto torpore. Pure, ogni tanto, mentre contempla il corpo dormiente della sua amante, sente che in quella pienezza c'è una mancanza; sente che il corponon lo soddisfa, ancorché gli abbia donato il piacere. E, assai confusamente, intuisce che forse quelle membra umane, quella carne, sono l'ostacolo a un vero amore, alla comprensione di una verità segreta che lo domina, lo fa soffrire proprio perché è segreta, si nasconde. Così abbandona Eliz; parte. Ora, è nell'afa dalmata: fra gli annoiati, insulsi ospiti dell'albergo. Non capisce più nulla, benché si interroghi ossessivamente su tutto: è perduto. E la svolta del destino è a un passo. Un pomeriggio, una donna bionda, mentre lui è alla reception, chiede a voce alta la chiave della camera quarantadue. È un invito? Askenasi, sul suo letto, medita a lungo. Poi bussa, entra in quella stanza. Quando ne esce, sappiamo che è stato compiuto un delitto. Sappiamo anche, tuttavia — e presto— che Askenasi è un altro uomo, adesso; e che quel doppio di se stesso che nel corso del viaggio gli si è materializzato accanto, lo accompagna sull'isola che sorge davanti a Ragusa. Lì, il professore di greco si toglie dalle tasche tutti gli oggetti che si porta sempre dietro, si toglie i vestiti, rimane nudo. Si siede, e parla con l'altro. C'è un senso nella creazione — gli chiede — un senso nella vita, nell'amore, nel corpo?
Oppure, noi siamo prigionieri definitivi della vita e del corpo?  Prigionieri di una finitezza che ci tortura, di un tempo al di là del quale non scorgiamo nulla, di una oscurità che ci tortura e possiamo
squarciare solo con un gesto estremo che riveli la nostra miseria fino in fondo? Le domande rimangono senza risposta. Non c'è pace sul mare.  Stanno per arrivare i gendarmi. Tace l'Interlocutore. E Askenasi lo invoca. «Dio mio», dice meccanicamente, «Dio mio… Perché mi hai abbandonato? ». È sfinito.

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