18.09.2025 – “Dante nell’Adriatico orientale” è il titolo della conferenza che la storica Donatella Schürzel (Presidente del Comitato provinciale di Roma e Vicepresidente nazionale dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia) ha tenuto la mattina di mercoledì 17 settembre alla Comunità degli Italiani di Pola davanti a una platea di liceali e insegnanti della Scuola Media Superiore con lingua d’insegnamento italiana “Dante Alighieri” e altri connazionali su iniziativa del Comitato di Pola della Società Dante Alighieri. Tre volte il nome del Sommo poeta in una sola frase. Basta per dire quanto profondo sia l’attaccamento degli italiani di Pola al padre della lingua e della letteratura italiana, il primo ad aver sgravato il volgare dal fardello della sua condizione subalterna rispetto al latino dei dotti; il primo ad averne smascherato l’ignoranza “se non sono stati capaci di capire che la lingua si evolve”.
Lingua e memoria
Due i momenti osservati dalla storica: l’opera nel contesto della lingua e il concetto di memoria, profondamente interconnesso con la lingua stessa. Due concetti chiave che permettono di considerare Dante attualissimo perché, da genio qual era, “ha avuto la capacità di strutturare, già allora, nel Trecento, un’idea così agile e così avanti nel corso del tempo che risulta essere pertinente anche oggi, e forse oggi più che mai, alla luce del declino dei rapporti economici e politici tra le nazioni a livello mondiale: Dante nel proprio tempo, come gli intellettuali, i letterati e gli artisti del nostro, possiedono quella capacità di presagire le sorti del mondo, ma non vengono mai ascoltati. Se si recepisse un po’ meglio quello che i profeti per ispirazione artistica e sensibilità umana particolare sono in grado di scongiurare, quante atrocità, quanti orrori che vediamo ogni giorno e quante apocalissi generate dall’uomo saremmo in grado di esorcizzare?”.

Nel Trecento, le due sponde dell’Adriatico vivono vicende simili, parallele, coeve e soprattutto condivise. Ci si chiede se Dante abbia realmente raggiunto Pola nei suoi pellegrinaggi, cosa che suggeriscono i celebri versi del IX canto (La città di Dite). Una domanda che ritorna già dalla fine dell’Ottocento e infatti già il famosissimo storico triestino Baccio Ziliotto indagava e dava una risposta affermativa sul fatto che Dante fosse veramente arrivato proprio sino a Pola, come viene ricordato nei famosi versi che Schürzel torna a citare volentieri: “com’io fui dentro, l’occhio intorno invio;/e veggio ad ogne man grande campagna,/piena di duolo e di tormento rio./Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,/sì com’a Pola, presso del Carnaro/ch’Italia chiude e suoi termini bagna”. Basterebbero i versi, secondo molti studiosi, a confermare il suo arrivo a Pola con tutto ciò che riguarda la sua permanenza, come l’ospitalità al convento benedettino di cui non vi è più traccia. Tra tutti spicca questo riferimento preciso al Carnaro, in seguito utilizzato anche dal D’Annunzio. Del resto, Dante è stato esiliato, ha fatto il pellegrino a lungo e in ogni dove: è stato a Verona, è sicuramente arrivato ad Aquileia, ospite del patriarcato, e da Aquileia spingersi fino in Istria non rappresentava nessun problema, anche per l’epoca, mentre sarebbe stato più difficile raggiungere la Dalmazia, o perlomeno Zara, benché qualcuno abbia suggerito anche questa ipotesi visto che all’epoca Zara vedeva nascere e affermarsi associazioni di medici e di speziali di cui il poeta aveva fatto parte a Firenze. Ma la possibilità che sia arrivato fino a Zara è molto più labile rispetto al suo soggiorno polese, verosimile, per evidenti motivi.

Dante e coerenza
Parlare di Dante oggi vuol dire anche parlare di coerenza. “Di fedeltà ai propri ideali cui non ha mai inteso venire meno, tanto da affrontare appunto un esilio, neanche dorato come in certi altri casi che abbiamo visto nel corso della storia in tempi più recenti”. L’esilio di Dante è stato piuttosto triste, sebbene abbia trovato chi, comprendendo il suo valore, lo ha accolto ben volentieri. Ma Dante ha fatto il fuggiasco, come dice lui, e ha capito “quanto sa di sale lo pane altrui”, quanta pena comporta avere quasi l’elemosina per benevolenza degli altri. Quindi, parliamo di coerenza. È rimasto senza nulla, e non solo senza nulla lui ma la moglie, i figli, che nel giro di pochissime ore, non giorni o settimane, hanno dovuto raccogliere al volo qualche straccio e andare via da Firenze per sempre perché altrimenti la pena era la morte, un destino veramente grave che Dante affronta e fa affrontare alla famiglia per non venire meno a se stesso e per mantenere quella immagine di onestà intellettuale e della sua persona. Dante venne infatti accusato di corruzione, falsamente, ha ricordato la relatrice, cosa che non accetta, al punto che non accetta di tornare in patria da reo confesso, ma rifiuta sdegnosamente e per questo motivo morirà a Ravenna. Quella stessa Ravenna che poi si è rifiutata di restituire le ceneri del fiorentino alla città natale, giustamente, perché “non l’hanno voluto vivo e non hanno alcuna giustificazione morale a reclamarlo morto”.
Daria Deghenghi
Fonte: La Voce del Popolo – 18.09.2025
