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Cittanova; dall’antica Neapolis a oggi (Voce del Popolo 04 apr)

Passeggiando oggi lungo la riva di Cittanova, spesso battuta dalle onde del mare, non si può fare a meno di ricordare la vecchia leggenda che racconta del grido di queste onde. Si narra, infatti, che nel Belvedere vivesse la figlia di un conte che con alterigia respingeva tutti i suoi pretendenti. Tuttavia, nemmeno l’altezzosa Fedora – questo era il suo nome – fu immune dalle insidie dell’amore. Accadde così che un bel giovane pescatore, il quale cantando gettava le reti nella rada, le piacque al punto da farlo venire nel giardino mentre la cameriera stava di guardia. Il frutto di quegli incontri amorosi non si fece attendere: un giorno Fedora partorì un bambino, ma decise subito di disfarsi del bastardo. In una notte tempestosa di nascosto uscì dal castello e scaraventò il povero piccolo, che piangeva disperato, nella furia delle onde.
Da quella notte Fedora non poté più trovare pace: se il vento fremeva, sembrava che qualcuno la inseguisse, se imperversava la burrasca, sentiva salire il pianto del suo bambino dal fondo del mare. Folle dalla disperazione, soltanto la morte la liberò dai suoi affanni. E ora, quando lo scirocco spinge le onde contro le rocce del Belvedere, pare che si possa sentire ancora il lamento del bambino.

L’«Emonia Saviana» di Plinio e Tolomeo

Cittanova è situata in un’area assai ricca di reperti archeologici. Si pensa che tra il I e III secolo questo territorio sia stato incluso nell’Ager Tergestinus (la colonia romana di Tergeste) dando luogo alla nascita di insediamenti del tipo delle ville rustiche romane. Con tutta probabilità, queste ville dovevano essere lussuose perché i resti rinvenuti sono situati in splendide posizioni panoramiche. Fu dunque una sede romana che Plinio e Tolomeo chiamarono Emonia Saviana. Quando la situazione economica e politica peggiorò, le ville romane, trasformate in villaggi medievali sguarniti di sistemi di difesa, vennero abbandonate. La popolazione si spostò, scegliendo di stanziarsi sull’isolotto di fronte alla costa. Il luogo, molto più facile da difendere, venne cinto dalle prime mura e da bastioni quadrangolari. Tuttavia, l’Anonimo Ravennate, nella sua Cosmografhia del secolo VII, elencando le città istriane, ricorda Cittanova non con il nome di Emonia, ma di Neapolis, toponimo greco che dal Placito del Risano in poi compare latinizzato in Civitas Nova. Anche Cittanova condivise poi, come tutti i centri dell’Istria occidentale, le glorie e i travagli di Venezia dal secolo XIV in poi.

Le catastrofiche conseguenze della peste bubbonica

Oggi Cittanova conserva solo in parte il perimetro delle antiche mura che la recinsero a partire dal secolo XIII per difendersi dagli assalti dei pirati che arrivavano dall’Adriatico. Vicino alla porta detta Portisiol, la lunga cortina mostra ancora i merli ghibellini. Più oltre, premuta dalle case che le si addossano, s’affaccia sul mare lasciando in stupenda evidenza il Belvedere (già citato nella leggenda), che risale con una certa probabilità alla metà del secolo XIV. Purtroppo, un’ampia testimonianza resta delle difficili condizioni della città e dei territori circostanti nei secoli XVI e XVII, causate dalle catastrofiche conseguenze della peste bubbonica.
Il vescovo Tommasini, testimone delle vicende del tempo di questa nostra Istria, alla metà del Seicento scriveva che, nel corso di dodici anni, nell’abitato erano rimaste vuote oltre trenta case. I bambini venivano allevati con grandi difficoltà, mentre la vita delle donne era molto breve. Cita testualmente nei suoi scritti: “La gente aveva le facce scarne e i bambini camminavano con i ventri gonfi come otri. Qui ci sono sempre dei malati e per loro non c’è alcun lenimento perché mancano medicine e non esiste né medico, né chirurgo, né farmacista”. Cita anche gli sforzi del suo predecessore per indurre il comune a provvedere ai bisogni della povera gente. L’approvvigionamento idrico era molto scarso. In città esistevano solo tre pozzi, quello vescovile, quello del podestà e quello della famiglia Busin, mentre dietro le mura cittadine “erano scavati tre miseri pozzi di cui tutti gli altri si servivano”.

Anni bui e difficili

Evidentemente erano quelli anni bui. Ricorda Bertoša (nel suo libro “Il Buiese”): “L’economia di Cittanova era in continuo decadimento. (…) A causa delle frequenti siccità, delle tempeste e delle malattie delle piante, il reddito degli olivi e delle viti era molto incerto. Oltre all’olio e al vino i principali prodotti agricoli erano costituiti dall’avena, dall’orzo e dal frumento. (…) Le disposizioni statutarie cercavano di proteggere la coltura della vite e dell’olivo con il divieto di importare vino ed olio nel territorio del comune di Cittanova, ma a queste disposizioni si trasgrediva molto spesso. Non c’erano mai granaglie a sufficienza. Il comune doveva acquistarne dai vari commercianti per rifornire il fondaco cittadino al quale si attingeva per soddisfare le esigenze della popolazione nei momenti di penuria”.
La cassa comunale difficilmente riusciva a far fronte alle esigenze e talvolta era completamente vuota o indebitata al massimo, poiché in alcuni anni le spese superavano di gran lunga le entrate. Malgrado la povertà e la scarsità di manodopera, il comune di Cittanova era obbligato a inviare i suoi sudditi ai lavori pubblici: drenaggio del fiume Quieto, ricostruzione di Trieste nel 1508, riparazione delle fortezze distrutte durante la guerra contro gli Uscocchi, ecc., e ancora nelle spedizioni militari (contro Ferrara nel 1482, a Raspo per la difesa contro i Turchi, alla conquista di Merano nel 1514) sulle galee e per altri bisogni tanto che verso la fine del XVII secolo le condizioni di Cittanova erano a tal punto gravi che venne nominata una delegazione la quale a proprie spese si recò a Venezia per esporre al Senato la situazione senza via d’uscita.

L’incursione dei Turchi e il riscatto per gli ostaggi

Tale situazione fu aggravata dall’incursione dei Turchi a Cittanova, Turchi che ebbero vittoria facile sui cittadini ancora assonnati. Entrarono attraverso le porte sul mare e inondarono le strette viuzze. Saccheggiarono case e chiese, rubarono il tesoro della cattedrale e presero in ostaggio 38 abitanti, tra i quali il podestà veneziano Giovan Battista Barozzi con la sua famiglia e il cancelliere Giacomo Rigo. I veneziani accorsero in aiuto dei cittanovesi e inseguirono i Turchi, ma senza successo. Fu richiesto un forte riscatto per liberare i prigionieri, ma Venezia accettò di pagarlo solo per il podestà e per la sua famiglia. Gli altri furono riscattati dai cittanovesi stessi.

Una zona… insalubre

Questa località era pure annoverata fra le zone insalubri dell’Istria veneta. La mortalità era molto elevata, specialmente durante le epidemie di peste bubbonica. La popolazione cominciò a crescere solo con l’immigrazione. Contraendo matrimoni con le donne del luogo, a Cittanova si sistemarono artigiani provenienti dal Friuli e da altre regioni italiane, ma anche dalla Dalmazia. Grazie a questi movimenti migratori e allo scemare delle malattie malariche, nel secolo XVIII la città cominciò a riprendersi. La povertà tuttavia rimase un male duraturo sia nella zona rurale che in quella urbana. Il Consiglio dei dieci del Senato veneto emanò nel 1720 la decisione di dispensare il comune di Cittanova dal pagamento dei debiti che ammontavano ad alcune decine di migliaia di libbre. Quattro anni più tardi, lo stesso Senato decise che la popolazione povera del comune non venisse gravata da nuovi tributi.

Il furto delle ossa di San Pelagio

Un cenno particolare merita il Duomo, meglio la chiesa dei Santi Pelagio e Massimo. A proposito di San Pelagio, c’è da ricordare che nel XIII secolo Cittanova venne attaccata dai Genovesi. Arrivarono qui a bordo delle loro navi e con un atto di pirateria portarono via le ossa del santo patrono (secondo la leggenda fu qui martirizzato dai Romani immergendolo in una vasca d’olio bollente e poi facendolo rotolare su frammenti di vetro). Ecco perché il protettore di Cittanova riposa oggi a Genova. Dato che la città fu per molti anni sede vescovile, all’interno della chiesa si può vedere la “sedia del vescovo” in legno intarsiato coperta di baldacchino. Tracce di questo periodo, che risale al V-VI secolo, rimangono sulla facciata nord della chiesa dove si aprono pure le antiche finestrelle. Purtroppo la maggior parte degli affreschi che ornavano le pareti della chiesa (qualche traccia si può vedere ancora vicino all’altare meridionale) e i marmi sono stati coperti dai restauri mentre molte sculture in legno e un pregiato Crocifisso sono scomparsi durante l’ultimo incendio. Sotto l’altare maggiore si trova la cripta paleocristiana dove la leggenda vuole sia stato martirizzato San Pelagio. Da notare ancora accanto alla chiesa il bel campanile “nuovo” costruito in pietra nel 1874 che ricorda quello di Venezia. Sulla cima troneggia una statua in bronzo del santo patrono posta su un ripiano girevole.

Il Palazzo dei conti Rigo

Un altro palazzo molto importante per la storia della cittadina si trova sulla cosiddetta Strada Grande: è il Palazzo dei conti Rigo, costruito nel 1760 con bellissime finestre bifore e monofore, sculture di teste e archi a sesto rotondo. Nelle stanze a pianoterra sono stati custoditi per anni i reperti che oggi sono passati al Lapidario, mentre oggi servono quali galleria di arte contemporanea. C’è ancora da ricordare che nel citato Lapidario si conserva pure un antichissimo ciborio di Maurizio dell’VIII secolo, uno dei rari esempi di arte carolingia delle nostre terre.
Non possiamo finire senza citare il Mandracchio, costruito durante il periodo napoleonico e fino a poco tempo fa chiuso da una grossa catena. Oggi ospita una molto fitta e importante schiera di barche da pesca.

Mario Schiavato

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