20.07.2025 – Il Trattato di Roma del 27 gennaio 1924 tra Regno d’Italia e Regno dei Serbi Croati e Sloveni sancì la fine dello Stato di Fiume, spartito a tavolino tra i due Stati firmatari. Il capoluogo del Carnaro con la sua ferrovia entrava finalmente a far parte dell’Italia, come era negli auspici di Gabriele d’Annunzio e ancor prima del Consiglio Nazionale Italiano- Quest’ultimo il 30 ottobre 1918 aveva proclamato l’annessione appellandosi al principio di autodeterminazione dei popoli, uno dei 14 punti in nome dei quali il Presidente Woodrow Wilson aveva fatto entrare gli Stati Uniti d’America nella Prima guerra mondiale. Al regno trino veniva assegnata Sussak con Porto Barros, la borgata fiumana tradizionalmente abitata in prevalenza da croati e separata dal centro storico di Fiume dalla foce del fiume Eneo, che assurgeva a linea di confine.
Ulteriori dettagli delle relazioni Roma-Belgrado furono messi a punto l’anno seguente con l’Accordo di Nettuno, firmato il 20 luglio 1925 nel forte Sangallo della località rivierasca laziale. In questo documento internazionalmente riconosciuto si regolamentavano l’acquisizione della cittadinanza, le acque territoriali, i servizi doganali ed il regime della pesca, creando così i presupposti per erigere effettivamente Fiume a provincia. Il leader autonomista Riccardo Zanella e le autorità dello Stato fiumano, deposti da un colpo di mano fascista nel marzo 1922, non riconobbero tali trattati, proclamandosi governo in esilio.

C’erano poi ulteriori passaggi che facevano riferimento al Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, con il quale i due regni adriatici avevano fissato il proprio confine lungo la displuviale delle Alpi Giulie e di tutta la Dalmazia solamente Zara veniva annessa all’Italia. La piccola comunità italiana che restava all’interno del regno dei Karađeorđević vedeva riconosciute sulla carta alcune tutele, che però furono ampiamente disattese: la Dalmazia era il cuore del nazionalismo croato, che, dopo aver goduto della benevolenza del declinante Impero asburgico, aveva vissuto con sofferenza l’appartenenza ad uno Stato che rappresentava l’ampliamento del Regno di Serbia e la cessione dell’Istria all’Italia. La minoranza autoctona italiana si era spesa molto a favore del Governatorato di Dalmazia presieduto dall’ammiraglio Enrico Millo che aveva retto per due anni la regione in attesa della definizione del nuovo confine e quando i militari italiani se ne andarono rimase in balia delle intemperanze croate.
A Nettuno furono sottoscritte clausole che impegnavano ad un maggior rispetto della componente italiana della Dalmazia, ma ormai gli italiani di Ragusa, Spalato, Sebenico, Traù e delle altre città della costa e delle isole se ne erano andati via quasi tutti, affluendo in quell’esodo che coinvolse circa 20.000 connazionali e si era consumato nei primi anni Venti. L’accordo fu rapidamente ratificato dal Parlamento italiano, mentre a Belgrado i tempi furono più lunghi per l’esacerbarsi della dialettica (ci furono anche scontri a fuoco in aula con morti e feriti) fra deputati croati, che consideravano la concessione di tutele agli italiani come un cedimento che degradava lo Stato slavo ad un regime semicoloniale, e serbi, che cercavano soprattutto di normalizzare i rapporti con l’Italia per poter procedere al consolidamento del fragile regno costituitosi ufficialmente il primo dicembre 1918.
Lorenzo Salimbeni
