Pubblichiamo, per gentile concessione dell’Autrice, la prolusione storica della prof.ssa Marina Cattaruzza, professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Historisches Institut dell’Università di Berna, pronunciata nel corso della commemorazione del Giorno del Ricordo svoltasi venerdì 8 febbraio 2013 nella Sala del Consiglio Comunale di Bologna. Erano presenti le massime autorità civili e militari, il presidente del Comitato ANVGD felsineo Marino Segnan, docenti e studenti degli istituti scolastici di Bologna.
È per me un grande onore essere stata chiamata a commemorare il Giorno del Ricordo presso il Consiglio del Comune di Bologna […].
A partire dagli anni Novanta del secolo da poco trascorso si è riscontrata una rinnovata attenzione per il tema della “memoria”, nonché per l’interazione tra memoria, storie nazionali e identità europea. Si è parlato al riguardo di “età del testimone”, sottolineando così il peso delle testimonianze dirette nell’elaborazione della storia del “secolo breve” e, soprattutto, nella ricostruzione delle vicende della seconda guerra mondiale, con particolare attenzione al vissuto delle vittime di questo immane conflitto, in cui la memoria dei sopravvissuti era chiamata a dar voce anche a coloro che non potevano più parlare. Assistiamo a nuovi intrecci tra storia e memoria, considerate oggi non più come due possibilità reciprocamente escludentesi di rapportarsi al passato, ma come dimensioni complementari del dialogo con le generazioni che ci hanno preceduto.
Non è casuale che la riscoperta della memoria e di coloro che ne sono stati i custodi si sia verificata proprio negli anni Novanta, e ciò non solo per motivi puramente anagrafici, legati al progressivo assottigliarsi della generazione che aveva vissuto in età adulta la seconda guerra mondiale. Con la caduta del Muro di Berlino, la dissoluzione del sistema comunista in Europa, la fine della stessa Unione Sovietica e l’implosione sanguinosa della Jugoslavia era arrivato al capolinea lo specifico equilibrio bipolare formatosi alla fine della seconda guerra mondiale. Tale svolta epocale può essere definita come fine del lungo dopoguerra, un dopoguerra durato ben quarantaquattro anni.
Gli avvenimenti qui sommariamente ricordati hanno permesso di far riaffiorare memorie sommerse, relegate fino allora ad una trasmissione in ambito familiare o appannaggio di circuiti autoreferenziali, fortemente separati rispetto alla memoria ufficiale. Fino al 1989, per esempio, il crimine perpetrato dal KGB sovietico, dell’uccisione di 25.000 ufficiali polacchi dopo l’attacco alla Polonia assieme alla Germania nazista, era un tema considerato tabù. La posizione ufficiale dell’Unione Sovietica era che il crimine fosse stato opera dei nazisti e i partiti comunisti si allinearono a tale interpretazione. Ma nell’ottobre 1992, il Presidente della Confederazione russa, Boris Yeltsin, consegnava a Lech Walesa i documenti con le prove della responsabilità del Politiburo sovietico. Un anno dopo Yeltsin si inginocchiava davanti alla croce innalzata alle vittime di Katyn (località in cui era stata fucilata una buona parte degli ufficiali) e deponeva una corona accanto al monumento. Dopo averne baciato il nastro, chiedeva perdono ai polacchi per il crimine commesso. Sempre in Polonia, il libro di uno storico ebreo polacco emigrato negli Stati Uniti, Jan Gross, su un pogrom commesso dagli abitanti polacchi del villaggio di Jedbawne contro i propri compaesani ebrei ed intitolato semplicemente Vicini, dava origine ad un amplissimo e controverso dibattito a cui parteciparono migliaia di persone e che segnò la prima assunzione di responsabilità nei confronti dei propri cittadini ebrei da parte della società polacca postcomunista.
Il dato positivo che accomuna i diversi episodi di recupero delle memorie rimosse è dato dalla volontà di onorare le vittime di passate ingiustizie, superando i tradizionali schemi di contrapposizione ideologica e rapportando, invece, questa nuova politica della memoria, al principio del rispetto e intangibilità dei diritti umani, elemento fondante dell’Unione Europea. Secondo lo storico britannico Tony Judt, scomparso pochi anni fa, il tentativo di integrare nelle storie delle nazioni europee i rispettivi passati traumatici e controversi è una delle acquisizioni più importanti del processo di integrazione europea e del suo allargamento ai paesi post-comunisti dell’Europa orientale.
In Italia, la manifestazione più importante di questa nuova politica della memoria, è stata l’istituzione del Giorno del Ricordo, entrato in vigore con la legge del 30 marzo 2004. La legge recita: “La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale ‘Giorno del Ricordo’ al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. È significativo che tale legge sia stata votata in Parlamento con un’amplissima maggioranza, a cui ha contribuito pure la sinistra riformista. I voti contrari sono stati una ventina tra Camera e Senato.
L’istituzione del “Giorno del ricordo” è un fatto di grandissima rilevanza per la memoria collettiva della nostra comunità nazionale, poiché esso ha per oggetto uno spezzone di storia italiana fino a qualche anno fa relegato alla memorialista delle associazioni degli esuli e dei diversi Comuni in esilio delle località dell’Adriatico orientale. La legge si propone di tenere vivo il ricordo delle vicende che hanno portato più di 300.000 connazionali ad abbandonare i territori passati dalla sovranità italiana a quella jugoslava alla fine della seconda guerra mondiale e di approfondire la riflessione storiografica sui temi legati a tali vicende.
Il secolo ventesimo può essere definito in molti modi diversi; tra l’altro esso fu il secolo delle migrazioni forzate. Si calcola che, compresi i territori dell’Unione Sovietica e dell’Impero Ottomano, dagli ultimi decenni dell’Ottocento fino ai primi anni Cinquanta, circa trenta milioni di persone siano state costrette ad abbandonare il proprio Paese sotto la pressione di spinte all’omogeneizzazione etnica, religiosa o nazionale o, semplicemente, nell’ambito di operazioni di polizia e di controllo del territorio. Ovviamente, i contesti in cui avvennero le espulsioni sono assai eterogenei, e non riconducibili ad un unico copione.
Una prima ondata di migrazioni forzate si ebbe con la prima guerra mondiale e con i conflitti che ne seguirono. Alla conclusione del conflitto greco-turco, con la pace di Losanna del 1923, i cittadini di fede greco-ortodossa della nuova Turchia furono obbligati a rifugiarsi in Grecia, mentre i cittadini di fede musulmana in Grecia vennero costretti ad abbandonare il Paese e trasferirsi in Turchia. Si trattava del primo scambio forzato di popolazione, che coinvolse circa un milione e mezzo di persone ed ebbe conseguenze devastanti soprattutto per la Grecia. Infatti, la Grecia non era in grado di accogliere un milione di persone prive di tutto. I profughi rimasero per anni nei campi di raccolta e si calcola che circa 70.000 vi morissero di stenti e di malattie. Il trattato di Losanna rappresentava il temporaneo punto finale di un processo di semplificazione etnica nell’Europa ottomana durato circa un secolo.
Si ritiene che nel corso delle guerre balcaniche che diedero vita agli stati indipendenti di Grecia, Romania, Serbia, Bulgaria, e Montenegro circa cinque milioni di musulmani abbandonassero i Paesi di fede ortodossa, per rifugiarsi sul territorio ottomano.
Ma anche nell’Europa centro orientale i nuovi trattati di pace, fondati sul principio dello Stato nazionale, provocarono l’abbandono dei propri luoghi di origine di diverse centinaia di migliaia di appartenenti alle cosiddette nazionalità non titolari, ossia nazionalità diverse da quella che rappresentava il fondamento dello Stato, come gli ungheresi in Jugoslavia, Slovacchia e Romania, i tedeschi soprattutto in Polonia, i russi nei paesi Baltici.
Nel corso della seconda guerra mondiale, i tedeschi praticarono a loro volta una politica brutale di trasferimenti forzati che nel caso della popolazione ebraica rappresentava una tappa intermedia rispetto alla deportazione nei campi di sterminio. All’inizio della seconda guerra mondiale Heinrich Himmler fu nominato “Commissario del Reich per il consolidamento dei caratteri etnici tedeschi”, con il compito di rendere etnicamente tedesche le zone di confine annesse alla Germania. Tale prassi fu realizzata solo parzialmente ed ebbe i suoi massimi effetti nella Polonia occidentale, da cui furono espulsi circa 1.500.000 polacchi ed ebrei per far posto a 400.000 coloni tedeschi. I piani nazisti erano, però, assai più ambiziosi e prevedevano l’espulsione di diversi milioni di slavi per far posto ad una colonizzazione tedesca che avrebbe dovuto estendersi fino agli Urali.
L’ondata più consistente di espulsioni forzate si ebbe alla fine della seconda guerra mondiale e riguardò in primo luogo le popolazioni tedesche della Polonia nei nuovi confini segnati ad occidente dai fiumi Oder e Neisse, che inglobavano territori a maggioranza tedesca o del tutto tedeschi, i tedeschi della Cecoslovacchia, una parte dei tedeschi dell’Ungheria e pressoché tutti i tedeschi della Jugoslavia. In tutto i tedeschi espulsi furono circa quattordici milioni, di cui diverse centinaia di migliaia morirono a causa delle modalità estremamente brutali con cui vennero attuate le espulsioni. Furono trasferiti però anche i polacchi e gli ebrei dell’Ucraina e una parte degli ungheresi dalla Cecoslovacchia.
È naturalmente assai problematico elaborare una definizione univoca di attribuzione etnica. Nella maggior parte dei casi le autorità polacche e ceche utilizzarono le pre-esistenti liste etniche compilate durante l’occupazione tedesca e le risposte fornite dai cittadini nel corso di censimenti etnici. Nella prima fase delle espulsioni, cosiddette “espulsioni selvagge”, la violenza etnica di formazioni paramilitari, di civili, o di spezzoni dei nuovi stati in formazione, presentava inevitabilmente ampi margini di arbitrarietà, funzionali, in ogni caso, a provocare manifestazioni di consenso e di lealtà al regime da parte di coloro che ne venivano risparmiati o che beneficiavano della redistribuzione delle risorse abbandonate dagli espulsi, quali appezzamenti di terreno, abitazioni e arredi.
L’ondata più consistente di espulsioni in Europa fu attuata su territori in cui andavano formandosi regimi comunisti sotto l’occupazione dell’Armata Rossa. L’espulsione delle popolazioni tedesche fu sancita alla conferenza interalleata di Potsdam nell’agosto 1945. Al punto dodicesimo del protocollo finale si legge: “I Tre Governi avendo esaminato la questione in tutti i suoi aspetti concordano sul fatto che l’evacuazione verso la Germania delle popolazioni tedesche attualmente residenti in Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria dovrà essere condotta ordinatamente e in modo umano”. Come Polonia erano intesi anche i territori fino allora tedeschi al di là dei fiumi Oder e Neisse, da cui furono cacciati più di 6 milioni di persone. Tali espulsioni erano state caldeggiate dai governi ceco e polacco in esilio già poco dopo l’invasione di tali Paesi da parte della Germania e, cosa ancora poco nota, erano state fortemente raccomandate dalla Gran Bretagna sulla base di considerazioni di controllo geopolitico dei territori. Al riguardo si contano diverse prese di posizione da parte di Winston Churchill.
Un funzionario del Foreign Office annotava in un parere favorevole alle espulsioni: “Questi territori possono avere valore strategico solo se vengono ripuliti dei tedeschi”. Il Presidente della Repubblica Cecoslovacca in esilio, Edvard Benes, aveva richiesto a Stalin l’appoggio per l’espulsione dei tedeschi dei Sudeti e il comitato di Lublino, marionetta del potere sovietico, aveva concordato con Stalin anche l’espulsione dei polacchi dai territori passati all’ Ucraina. I tedeschi della Cecoslovacchia vennero privati della cittadinanza ed espropriati di tutti i loro beni prima di venir espulsi.
Alla fine della seconda guerra mondiale, furono attribuiti alla Jugoslavia con il trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947 quasi tutti i territori che l’Italia aveva acquisito alla fine della prima guerra mondiale. La città di Trieste avrebbe dovuto essere internazionalizzata e il confine era di poco più avanzato rispetto a quello del 1866, alla fine della terza guerra di indipendenza. Tale passaggio di sovranità fu accompagnato dall’abbandono del territorio da parte di quasi tutta la popolazione di lingua e/o sentimenti italiani, intendendo tali criteri in senso molto lato.
Come la maggior parte dei trattati di pace che prevedevano spostamenti di confini, anche il trattato di Parigi del 1947 prevedeva il diritto di “opzione” per la cittadinanza italiana per le popolazioni che si fossero trovate al di là del nuovo confine. L’opzione per l’Italia implicava l’abbandono del territorio passato sotto la sovranità jugoslava. Nel caso degli italiani dell’Adriatico orientale, il diritto di opzione si tradusse in una scelta plebiscitaria di abbandonare i paesi di origine, scelta che modificò in modo irreversibile la fisionomia linguistica e culturale dei territori ceduti.
Nell’ultimo decennio sono usciti diversi importanti contributi sull’esodo dall’Istria, che hanno ricostruito con rigore storiografico le diverse fasi dell’abbandono del territorio da parte della popolazione, nonché le ondate di terrore messe in atto dal potere partigiano jugoslavo nel settembre 1943 e nel maggio 1945, rubricate sotto il termine impreciso di “foibe”. In realtà non tutte le persone eliminate dai vertici del potere partigiano e dal loro braccio esecutivo, i servizi segreti denominati OZNA e i loro antecedenti, vennero gettate nelle cavità carsiche. Altri malcapitati morirono di stenti nei campi di concentramento jugoslavi, finirono affogati (soprattutto in Dalmazia) o furono vittime di esecuzioni sommarie. Secondo le stime più attendibili, come quelle di Raoul Pupo e Roberto Spazzali, le vittime ammontarono a circa 5.000 persone.
È stata definitivamente sfatata l’interpretazione giustificazionista, secondo cui le violenze anti-italiane furono la reazione spontanea della popolazione all’oppressione subita durante il fascismo. In realtà tali violenze erano state pilotate dai vertici del movimento partigiano (nel 1943) e dagli apparati dello stato jugoslavo in formazione (nel 1945). Al crollo del potere italiano in Istria successivo all’armistizio dell’8 settembre, bande di insorti coordinati dal partito comunista croato e con la partecipazione di quadri comunisti italiani praticarono la liquidazione di circa 600 persone, considerate “nemici del popolo” o possibili oppositori all’instaurazione del potere partigiano. All’inizio d’ottobre tutto il territorio veniva occupato dalla Wehrmacht, che a sua volta praticò sanguinose rappresaglie.
Al momento della sconfitta definitiva dei tedeschi, gli Jugoslavi ripresero il controllo militare e civile della Venezia Giulia e rilanciarono in forma maggiormente organizzata la loro politica di liquidazione degli elementi che avrebbero potuto opporsi all’annessione.
Della seconda ondata di violenze furono vittime i militari italiani presenti in loco, le forze di polizia, i partigiani militanti nelle formazioni non comuniste, e, in generale, tutti coloro che, anche potenzialmente, avrebbero potuto opporsi all’instaurazione di un sistema comunista jugoslavo. Nel 2006 il Ministero degli Esteri sloveno ha consegnato al prefetto di Gorizia una lista con i nomi di 1048 deportati dalla cittadina isontina in Jugoslavia, dei quali solo poco più di un centinaio fece ritorno a casa.
I deportati, destinati a morire in prigionia, erano suddivisi secondo le seguenti categorie: agenti di pubblica sicurezza, deportati dall’ospedale militare del seminario di Gorizia, prelevati dal carcere alla fine del dicembre 1945 e all’inizio del 1946, appartenenti al XIV Battaglione Costiero, finanzieri, carabinieri, Milizia di Difesa Territoriale, bersaglieri, militari, scomparsi riportati solo con nome e cognome, civili, scomparsi prima del 1 maggio 1945, appartenenti alle formazioni anticomuniste slovene. Dalle tipologie presenti nell’elenco è evidente che il criterio principale che sottendeva la deportazione era il fatto di vestire una divisa, a prescindere da qualsiasi imputazione di crimini commessi contro i partigiani (colpevole di tali crimini era, probabilmente, una parte degli agenti di pubblica sicurezza). Si trattava, come è stato detto, di misure di “epurazione preventiva” e non di rappresaglie per violenze commesse.
Il 12 giugno 1945 l’esercito jugoslavo fu costretto a ritirarsi da Trieste, nonché dal porto militare di Pola. A prescindere da questi due centri urbani e portuali, il resto dell’Istria, Fiume e Zara rimanevano sotto occupazione jugoslava. Tuttavia, l’occupazione anglo-americana non impedì che continuasse a essere esercitata una forte pressione a favore di un’adesione alla soluzione jugoslava anche a Trieste e a Pola, che non poteva essere debellata efficacemente dalle forze di occupazione occidentali.
Per esempio, il 18 agosto 1946, scoppiavano sulla spiaggia di Pola, in occasione di una regata che vedeva la partecipazione di una grande massa di spettatori italiani, ventotto mine antisbarco, considerate fino allora inerti, in quanto vi erano stati asportati i detonatori. Il terribile scoppio provocò più di sessanta morti e numerosi feriti. Un’inchiesta delle forze di occupazione britanniche giunse alla conclusione che si era trattato di un attentato doloso: “Gli ordigni sono stati deliberatamente fatti esplodere da persona o persone sconosciute”. Pochi mesi dopo quasi tutti i cittadini di Pola sceglievano l’esodo.
La strage di Vergarolla è rimasta nella memoria dei polesani come la conferma che la permanenza in città dopo il ritiro degli Alleati sarebbe stata impossibile. Così descrive la tragedia di Vergarolla Nelida Milani nel bellissimo libro Bora (Frassinelli, 1998 con diverse ristampe), scritto a due mani con Anna Mori, in cui si confrontano le esperienze di due donne italiane quasi coetanee, ambedue nate a Pola, di cui una abbandonò la città assieme alla propria famiglia e l’altra vi ci rimase: “Ci fu un’esplosione assordante che scosse la baia e la prima fiammata infernale coronata da fumo nero salì verso il cielo. Poi, esplosioni a catena. Una strage tra i bagnanti. Si salvò chi era in mare, in barca, ma non tutti. … Così si compì il destino di sessantacinque polesani, di cui cinquantanove furono identificati, cui va aggiunto un numero imprecisato di feriti gravi e leggeri. All’ospedale civile il chirurgo Geppino Micheletti riconobbe tra le salme i suoi due figli, eppure continuò a prestar soccorso ai feriti tutta la notte, senza mai allontanarsi dal tavolo operatorio… L’esodo a quel punto si fece visibile, massiccio, collettivo”. Azioni intimidatorie nei confronti di italiani e singoli omicidi si riscontravano, durante l’occupazione alleata, anche a Trieste.
Certo, sarebbe semplificatorio affermare che l’abbandono della propria terra da parte di più di 300.000 persone, appartenenti a tutti i ceti sociali, a tutte le classi di età, di estrazione urbana e contadina, fosse la conseguenza immediata delle due ondate di liquidazioni di massa messe in atto nel 1943 e, rispettivamente, nel 1945, visto che queste provocarono un numero di vittime certo assai elevato, ma non rapportabile al numero dei profughi. Né è accettabile sul piano storiografico l’affermazione che i poteri jugoslavi pianificassero il genocidio di tutta la popolazione italiana presente sul territorio.
In realtà, la scelta dell’abbandono del proprio territorio, che formalmente avvenne sotto forma di costrizione aperta solo in alcuni casi, fu il risultato complesso di una molteplicità di circostanze che portarono gli abitanti di lingua italiana dell’Istria a sentirsi “stranieri in casa propria”. Al riguardo, osservava il giurista tedesco Theodor Veiter, ancora nel 1967: “La fuga degli italiani secondo il moderno diritto dei profughi è da considerare un’espulsione di massa. Colui che, rifiutandosi di optare o non fuggendo dalla propria terra, si troverebbe esposto a persecuzioni di natura personale, politica, etnica, religiosa o economica, o verrebbe costretto a vivere in un regime che lo rende senza patria nella propria patria di origine, non compie volontariamente la scelta dall’emigrazione, ma è da considerarsi espulso dal proprio Paese”.
Oggi, diversamente da allora, la costrizione ad abbandonare il proprio territorio da parte di una popolazione sarebbe considerata una violazione grave dei diritti umani e giudicata, probabilmente, da un tribunale internazionale.
I territori in questione furono i sottoposti sia prima che dopo la stipula del trattato di pace a trasformazioni complesse che riguardavano diversi ambiti della convivenza civile.
Sebbene il potere jugoslavo si presentasse come internazionalista e proprio sul superamento degli odi nazionali tra serbi, croati e bosniaci avesse costruito le proprie fortune, lo status che vi avrebbero avuto gli italiani era nettamente diverso da quello dei popoli slavi, costitutivi dello Stato socialista. Gli italiani sarebbero stati tollerati, nel discorso degli organi del potere jugoslavo, solo sé di estrazione proletaria e se si fossero dimostrati sostenitori incondizionati del nuovo sistema. Di fatto, nella stampa in lingua italiana dell’epoca, si riscontrava comunemente l’equiparazione tra italiano e fascista.
Come rilevato da Nelida Milani, solo ad una minoranza di italiani veniva attribuita la qualità di cittadini a pieno diritto, mentre la maggioranza sarebbe stata composta da “fascisti” o “reactja”. Ciò poneva gli italiani nella condizione di dover dimostrare in continuazione la fedeltà al nuovo sistema politico e li rendeva vittime predestinate di epurazioni, discriminazioni, espropri, ecc. “Quella dell’odio contro gli italiani non solo è una storia lunga, ma quasi una tradizione che cova sotto le ceneri e tende a rinnovarsi periodicamente”, osservava di nuovo la Milani. Aggiungendo, per giustizia: “Quando la Vittoria portò circa cinquecentomila slavi sotto la sovranità italiana, i provvedimenti contro le scuole e contro l’uso della loro lingua non si fecero attendere. Ora che sono avanzati i croati e hanno la loro sovranità, fanno altrettanto”.
Tali meccanismi risultavano pure funzionali alla creazione di consenso verso i nuovi poteri da parte di quei settori di popolazione non esposti alla discriminazione nazionale o che sceglievano di cambiare nazionalità, scoprendosi croati. La discriminazione degli italiani si rivelava dunque funzionale alla ristratificazione etnica del territorio e all’instaurazione di un nuovo ordine simbolico, in cui il gruppo italiano fosse collocato in una condizione di minorità: “La contrapposizione tra etnie, e al tempo stesso fra città e campagna, che vedeva il nuovo potere come espressione esclusiva di una delle componenti nazionali della società istriana, quella slava, in lotta per sopraffare violentemente l’altra, confermava come nelle zone a maggioranza italiana il regime jugoslavo si configurasse in termini di puro dominio nei confronti di una popolazione radicalmente ostile”.
Un ulteriore fattore all’origine dell’abbandono dei propri paesi fu l’arbitrarietà degli interventi da parte del potere socialista. Soprattutto nei primi anni di consolidamento del regime la popolazione era sottoposta a diverse misure arbitrarie, vissute come fortemente oppressive. Tali misure riguardavano gli espropri di proprietà immobiliari, di esercizi industriali e commerciali e di altri beni, l’introduzione del lavoro obbligatorio non rimunerato, misure di epurazione pretestuose o esagerate, favorite dall’uso estremamente disinvolto della categoria di “nemico del popolo”. Sempre Nelida Milani ricorda: “…Il potere popolare costrinse tutto il paese a fare la domenica il lavoro volontario, la cosiddetta rabota, perché i drusi avevano il diritto di spaventare la gente, di decidere dell’altrui destino… Fare la strada, il manto, fare la bonifica, fare la casa per i soci della cooperativa, fare la discarica: il gentile invito a fare lavoro volontario aveva il sapore dell’imposizione. Si lavorava fino a mezzogiorno, solo perché la gente di domenica non si recasse in chiesa. Chi non andava a lavorare veniva criticato nelle torrenziali riunioni di partito, dove ciascuno aveva l’obbligo della critica e dell’autocritica”.
Un terzo elemento riguardava la presenza pervasiva di elementi della polizia politica e di informatori, che creavano un clima permanente di insicurezza. Inoltre, sebbene le liquidazioni di massa fossero cessate alla fine del 1945, si riscontravano anche negli anni successivi singole sparizioni destinate a rimanere oscure, per cui ognuno continuava a temere per la propria vita e per quella dei propri familiari.
La presenza simultanea degli elementi sopra illustrati spiega la decisione di abbandonare i propri territori di origine da parte di quasi tutta la popolazione italiana che subiva un progressivo processo di estraniazione rispetto a quella che fino a poco tempo prima era stata la sua patria. Lo stravolgimento messo in atto dalla presa del potere da parte del movimento partigiano jugoslavo riguardava, infatti, nel suo complesso la realtà del vivere civile: dalla percezione del proprio ruolo nell’ambito della comunità, alla possibilità di continuare a praticare le propria attività, all’esercizio delle libertà fondamentali. Ne risultava una fortissima distorsione di quella che era stata la precedente vita di relazione, sostituita da codici di comportamento estranei, da un radicale restringimento della sfera della libertà individuale, dalla disgregazione della condizione urbana, dal dilagare di un senso di paura e di umiliazione, onnipresente ma difficile da confessare anche a sé stessi.
Insomma subentrò quella condizione evocata da Theodor Veiter, per cui questi ex cittadini italiani finirono per sentirsi “stranieri in casa propria”. “A mano a mano che i polesani partivano, le loro case venivano occupate da nuovi inquilini. Dopo il 1950, Pola si riempì lentamente di una popolazione che reciprocamente non si conosceva. Molti erano inviati lì per decreto: insegnanti, avvocati, milizioneri. Nessuno diceva da dove arrivava, sembravano tutti spuntati dal nulla. Venivano da lontano e da vicino, dalla campagna istriana, moltissimi capi comunisti, ex contadini, si sceglievano le ville che erano state dei fascisti e della reactja italiana”.
E infine, un altro brano della Milani a marcare il progressivo senso di estraniamento e di stravolgimento della dimensione urbana: “In un clima surreale quanto tragico, nell’isolamento più totale, a Pola si ballava il kolo. I drusi ballavano sempre il kolo…Per le strade, per i Fronti Popolari fra i vari rioni, dappertutto si snodava il serpentone del kolo, la sua testa fremeva nell’Arena e la sua coda palpitava in piazza Foro.”
Il progressivo dispiegarsi di tali problematiche spiega anche il lungo arco di tempo in cui si attuò la scelta dell’esodo, dal 1944 al 1956, che testimonia sia del tentativo di venire a patti con la nuovo realtà che del suo fallimento.
In conclusione, si può senz’altro affermare che l’istituzione del “Giorno del Ricordo” ha favorito la riappropriazione di uno spezzone della nostra storia da parte di ampi settori della comunità nazionale. Il riconoscimento delle sofferenze subite da coloro che furono costretti ad abbandonare il proprio paese alla fine della seconda guerra mondiale ha un doveroso intento risarcitorio nei confronti di cittadini italiani le cui vicende sono state dimenticate nel corso di tutto il lungo dopoguerra.
Oggi l’opinione pubblica è senz’altro più informata rispetto agli avvenimenti in cui furono coinvolte le comunità italiane dei paesi che si affacciavano sulle coste dell’Adriatico orientale e l’atteggiamento complessivo nei loro confronti è senz’altro più simpatetico di quello dei decenni passati. È il caso di ricordare, a tale riguardo, che il 18 febbraio 1947, proprio qui a Bologna, fu impedito dalla CGIL a un treno di profughi di fermarsi alla Stazione per rifocillarsi e venir assistiti dalla Croce Rossa Italiana e dalla Pontificia Opera di Assistenza. Se si fosse fatto fermare il treno dei “fascisti”, sarebbe scoppiato uno sciopero generale, fu il minaccioso monito. Il treno fu preso a sassate da giovani che sventolavano la bandiera rossa, altri lanciarono pomodori e altro sui profughi, mentre altri ancora buttarono addirittura il latte destinato ai bambini sulle rotaie. Oggi, questi ci sembrano, per fortuna, atteggiamenti quasi incomprensibili. Essi testimoniano, al tempo stesso, dell’intensità dell’odio ideologico e di classe riscontrabile nell’Italia uscita stremata dalla seconda guerra mondiale.
Tuttavia, sebbene il destino dei profughi dai territori perduti dall’Italia nella seconda guerra mondiale susciti oggi maggior simpatia e condivisione, rimane ancora carente, a mio, parere, la contestualizzazione di tali vicende nell’ambito della storia italiana del ventesimo secolo. Il difficile nodo storiografico con cui è ancora necessario fare i conti è dato dalla sconfitta italiana nella seconda guerra mondiale. Solo recuperando alla memoria nazionale tale sconfitta e riconoscendone la centralità per la storia nazionale recente – e non solo per la storia del fascismo – sarà possibile situare nel loro specifico contesto non solo le vicende dell’esodo, ma anche quelle dei prigionieri italiani, delle centinaia di migliaia di soldati sbandati, delle vittime civili dei bombardamenti e di tante altre comunità di sofferenti, i cui destini risultano a tutt’oggi colpevolmente rimossi. Rispetto alla latitanza della storiografia è stato il cinema a svolgere, negli anni Sessanta, una funzione suppletiva, di raffigurazione di drammi collettivi in cui tanti uomini e donne potevano riconoscersi. Pensiamo, per esempio al “Tutti a casa” di Luigi Comencini, o a “La ciociara” di Vittorio de Sica, con un’indimenticabile Sofia Loren.
Come rilevato in un recente volume da Elena Aga Rossi e Teresa Giusti sui prigionieri italiani nei Balcani, la guerra fu sì voluta dal fascismo, ma fu persa da tutti gli italiani. Sulla condizione di debolezza dell’Italia sconfitta, si è soffermato, significativamente, Giulio Andreotti, nel corso del dibattito sulla legge istitutiva del Giorno del Ricordo al Senato. Con la consueta lucidità egli osservava: “Mi sembra che lo spirito… di questo disegno di legge sia quello di poter operare una ricostruzione di carattere storico, non appesantita però da considerazioni politiche aggiuntive o di altro momento, ricordando che la nostra posizione nell’immediato dopoguerra era di estrema debolezza, perché eravamo internazionalmente isolati. Se fu possibile, attraverso l’Accordo con l’Austria, togliere dal tavolo delle trattative dei vincitori della guerra il problema del Brennero, fu perché l’Unione Sovietica non era affatto interessata all’Austria, né in senso favorevole, né in senso contrario, laddove invece in quel momento Tito godeva di una protezione e di una –possiamo dire – fraternità assoluta, per cui noi eravamo… in una situazione di estrema debolezza. Ritengo che il ricordo non debba avere una valenza solo di tipo simbolico e morale, ma anche di approfondimento di carattere storico”.
Gli uomini nati in Italia tra l’inizio del Novecento e i tardi anni Venti hanno custodito ricordi che non hanno trovato alcuno spazio nella narrativa ufficiale e ancora oggi si stenta a fare i conti con il dramma dell’8 settembre, che è stato definito, a suo tempo, a ragione, la vicenda più tragica dell’Italia contemporanea. Elaborare una consapevolezza storiografica della sconfitta italiana e delle sue conseguenze non significa, naturalmente, sminuire le colpe del fascismo o relativizzare le responsabilità dell’esercito italiano per crimini commessi nelle zone d’occupazione. Significa, invece, riconoscere che la riacquisizione della libertà e la fine della dittatura avvennero in un Paese uscito sconfitto da una guerra sciagurata, di cui centinaia di migliaia di italiani pagarono le conseguenze. In una tale prospettiva, le vicende dei profughi dall’Adriatico orientale rappresentano un tassello di una vicenda nazionale più ampia, ancora lontana dall’essere ricostruita nella sua interezza.
Marina Cattaruzza