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Budinich: da Lussino all’arcipelago della fisica (Il Piccolo 26 feb)

di PAOLO RUMIZ

Spezza in due la sigaretta, rimette nel pacchetto il filtro con un rimasuglio di tabacco, prende l’altra metà, la infila tra i baffi e la barbetta appuntita da satrapo, poi l’accende così da vicino al naso che la faccia in penombra s’illumina di un alone rossastro e il pelo bianco quasi s’incendia.

«Cussì fumo de meno», brontola soddisfatto. E intanto la cicca si consuma rapidamente a filo di labbra, si esaurisce e – non si sa come – scompare, senza lasciare nessun mozzicone.

È fatto così il più vecchio degli apprendisti stregoni triestini, il fisico Paolo Budinich, anni 93 da Lussingrande. Manifesta con piccoli gesti da alchimista la sua «laica» dimestichezza con gli elementi. Parte col fuoco, ma dovreste vederlo in mare, al timone di «Ambra», la vela con cui ha battuto il Mediterraneo. Oppure in terrazza, quando esce nella tramontana in camicia e ciabatte a mostrare «la più bella vista del mondo», quella su Barcola.

«Il profumo del mare dipende dall’umore che hai», svela dopo aver annusato il vento come un cane da punta. Poi rientra, e si lascia cadere all’indietro in una poltrona di cuoio, mentre una grande pendola batte le cinque.

«Batte le ore da 270 anni, da quando Simeone Budinich lo portò da Londra con la sua nave».

Il tavolo da lavoro è ingombro di ogni cosa, come se un mestolo si fosse messo a confondere le carte per farle interagire e creare formule nuove. Carte dappertutto, piene di numeri, anche a terra. Un gattone nero ci passa sopra senza fare rumore. Le pareti sono coperte di libri.

«A casa dei Budinich sa leger anche i gati, diseva la gente de Lussin» sorride il vecchio, e racconta del nonno Melchiade che lo prendeva sulle ginocchia mentre armeggiava con vecchi volumi sullo scrittoio di famiglia.

Incontrare il fondatore del Centro di fisica di Miramare significa fare un viaggio negli arcipelaghi e nelle segrete carte di un uomo che continua a sognare, anche se sognare è diventato fuori moda in questo Paese di opportunisti, incapaci di pensare in grande. Lo ascolti e respiri, ti riconforti, pensi che non tutto è perduto. Ma prendi anche atto che «fioi cussì» la mamma non ne fa più.

Quando è nato, professore?

«1916, quando è morto l’imperatore. Avevo un testone così grosso che il medico disse “Dass ist Wasserkopf”, cioè che ero idrocefalo. Ci ho messo una vita per scoprire che non era vero. Due anni fa caddi e mi fecero una radiografia al cranio. Venne fuori che avevo una montagna di neuroni».

Budinich che vuol dire?

«Pare che venissimo da Buda, in Ungheria. Ci fu un’immigrazione nel sedicesimo secolo, dopo lo sfondamento dei turchi verso Nord».

S’accende un’altra mezza cicca e dagli occhi a mandorla lascia filtrare un’occhiata da carovaniere uzbeco, un lampo nella penombra che svela tutta una genealogia.

«Venni a Trieste a tre anni, via San Michele 35. Papà trovò un lavoro e ci trasferimmo, ma si tornava a Lussingrande alla prima occasione. Via sulla nostra passera fin a pescar riboni. D’estate non ci teneva nessuno. Il richiamo dell’arcipelago era irresistibile».

L’infanzia?

«Scatenata. Il gioco era passare oltre la palizzata del giardino vicino e saltare di albero in albero. Così conobbi Melilla, la mia vicina, che poi divenne la stilista Mila Schoen. Un’infanzia selvaggia aumenta la capacità di fantasticare e inventare… Quand’ero a Lussino costruivo canocchiali con lenti di vecchi occhiali per vedere le stelle».

E a scuola?

«No jero biflòn, ma ‘ndavo ben. Molte cose mi erano facili, come la matematica, e all’esame di maturità il presidente della commissione suggerì a mio padre di mandarmi alla Normale di Pisa».

Come andò?

«Male. Ci si mise di mezzo zia Lia che volle raccomandarmi al vescovo. E così quando andai all’esame il professor Tornelli disse ad alta voce: “Ah, ecco il Budinich, raccomandato dal vescovo”. Fece benissimo, ovviamente. Ma mi tagliò le gambe. Eravamo in settanta per tre posti e non entrai».

E allora?

«Tenni duro. Mi iscrissi all’università di Pisa per tentare l’ingresso alla Normale il secondo anno. Papà mi mandava 150 lire al mese, bastava appena a non morir di fame. Ma presi trenta in tutti gli esami e alla fine entrai con merito nell’alta scuola. Dentro c’erano Ciampi e Natta. Mi laureai a 22 anni».

Un treno passeggeri, tutto illuminato, rompe il silenzio della sera e sferraglia sui binari della «Meridionale» poco a monte di casa Budinich. Ljuba, una bionda moldava vissuta a Murmansk sul Mare Artico, porta uno strudel ancora caldo e un piccolo samovar col thè.

«Era il ’38, feci il servizio militare sulla Vespucci. Insegnavo matematica ai cadetti. Sembravo molto più giovane della mia età, tanto che alle lezioni dovettero mettermi vicino un ufficiale anziano per impedire che gli allievi mi prendessero per una recluta. Poi venne la guerra, divenni sommergibilista e feci l’ufficiale di rotta nel labirinto delle isole dell’Egeo. Mi mancava la matematica. Così mi buttai a studiare filosofia. Divoravo libri sulla mia brandina negli abissi».

E poi?

«Dopo due anni passai in Italia, e volai con gli aerosiluranti. C’erano con noi alcuni antifascisti e facemmo lega, attorno alla scuola di Benedetto Croce. Poi ci fu la fuga. Al largo di Trapani, dopo un ammaraggio, misi la pistola alla tempia al pilota e gli urlai di decollare, prima che i fascisti ci beccassero. Buttammo in mare i codici segreti, poi ci demmo come prigionieri agli inglesi a Philippville in Algeria. Volevamo collaborare con la Resistenza. Ma invece ci spedirono in prigionia in America».

In quanti eravate sull’idrovolante?

«In cinque. Per questo non ho mai raccontato nei dettagli questa storia. Per farlo ho aspettato che fossero morti tutti».

Intanto il sole d’inverno tramonta, inondra le vetrate della mansarda, illumina i ritratti a olio dei capostipiti, accende gli occhi duri di Elena consorte del capitano Botterini ai tempi del Bonaparte, fiammeggia sul cipiglio di Simeone Budinich (nato nel 1744) che, al comando della «Madre Amorosa», bastonò una squadra di corsari turchi tra Zara e il Quarnaro.

«Li ho disegnati io questi finestroni, per vedere il mare sempre, a tutte le ore e in tutte le stagioni. E per farlo vedere ai miei antenati».

Cosa fece nel ’45?

«Tornai in Italia, ma non c’era lavoro. Non toccavo libro di matematica da sette anni. Così mi misi a vendere pasta. La portavo dal grossista ai negozianti con un carro a cavallo. Ma ero totalmente incapace. Ci perdevo. Ma alla fine mi aiutò la fortuna. Roma aveva deciso di aprire facoltà scientifiche all’università di Trieste e mi chiamarono. Feci carriera in fretta. Ebbi una borsa di studio per l’università di Goettingen, a fianco del grande Werner von Heisenberg. Fu il decollo».

Ma come nacque il centro di fisica?

«Da un’incredibile serie di coincidenze, dietro alle quali c’era però una volontà politica a favore di Trieste, e anche la nostra capacità di sognare. Successe che Diego de Castro rappresentava l’Italia nel Governo Militare Alleato e ci disse: ragazzi, dovete fare di Trieste la prima università d’Italia. A quel punto chiamai i miei colleghi di Goettingen, e scattò il cortocircuito giusto».

Racconti.

«Sapemmo che c’era il grande Abdus Salam a Ginevra, lo invitammo al castelletto di Miramare e lui s’innamorò del luogo. Poi Edoardo Amaldi ci avvertì che Einstein e Oppenheimer, i padri dell’atomica, spingevano per realizzare un centro targato Nazioni Unite destinato a una scienza di pace. Trieste era perfetta, ma non avevamo una lira. E qui viene il bello».

A quante porte avete bussato?

«Corsi dal presidente della Cassa di Risparmio di Trieste. Si chiamava Sadar. Gli chiedemmo cento milioni, una cifra enorme. Lui ascoltò in silenzio e disse: vedremo. Pensai: mi ha preso per matto. Il giorno dopo mi chiamò per dire che il consiglio d’amministrazione aveva stanziato la somma. Ma si rende conto? Oggi sarebbe impensabile. Fatto sta che a quel punto si sono mossi tutti. La Provincia ci comprò un palazzo in piazza Oberdan, il sindaco Franzil s’entusiasmò – a proposito, perché nessuno ricorda mai Franzil? – e corse da Fanfani a dirgli che tutto era pronto per una signora candidatura italiana al nuovo centro d’eccellenza della fisica mondiale».

Con l’Expo non è successo la stessa cosa…

«Certo che no. Qui eravamo un perfetto pacchetto di mischia. Niente polemiche. E così abbiamo superato l’opposizione degli Stati Uniti che volevano quei cervelli in casa loro. Ci trattavano con sufficienza… dicevano: “Volete un centro per Paesi in via di sviluppo? Vi troverete con un centro in via di sviluppo…”. Ma abbiamo vinto, dopo tre anni di lobbying. I Paesi poveri guidati da Salam hanno battuto i ricchi e l’Onu ha votato per noi. Il resto è storia nota. Dal centro è nato tutto il resto del sistema Trieste».

Anni memorabili.

«Pensi. Durante la guerra fredda qui russi e americani avevano uno dei pochi posti dove parlare. Dopo l’11 settembre gli scienziati musulmani e quelli dell’Occidente si sono confrontati su cose serie. Per non parlare delle amicizie nate tra israeliani e palestinesi».

Regge la filosofia degli inizi?

«È più valida che mai. Siamo partiti con l’idea di bloccare l’emigrazione dei cervelli dal Terzo Mondo. Oggi con tutte queste emigrazioni selvagge è ancora più urgente portare cultura per dare a quella gente la possibilità di restare a casa loro. La chiave di volta di questa crisi economica è la solidarietà. Il collasso è la conseguenza dell’egoismo dei ricchi…».

Il gattone nero viene a strusciarsi sulle caviglie del Capitano. Le vecchie poltrone, i ritratti e i vecchi legni ricordano la Royal Society di Londra, il posto di Darwin e Newton.

Scommetto che ha altri sogni…

«Sì. Il Global University Network for Africa, G.U.N.A., un’agenzia capace di fornire le infrastrutture elettroniche alle università africane. Sarebbe un detonatore di sviluppo capace di fermare le masse di profughi verso le coste italiane. Ma lo vogliamo capire che le motovedette non servono? La storia del mondo dice che nessuno ferma le migrazioni».

Trieste sarebbe la sede?

«Quale posto migliore di questo? Se l’Africa esce dal sottosviluppo, il nostro porto ritrova la centralità perduta… Ma ci vuole uno scatto di fantasia… Perché il sindaco non si mette a capo di un comitato civico per questa iniziativa? Oggi, di nuovo come ai tempi di Franzil! Bisogna presentarsi uniti, non in ordine sparso… Il 25 marzo a Bruxelles ci sarà un summit euro-africano. Ci saranno tante città della scienza meno importanti di Trieste, ma appoggiate dai loro governi. E noi chi abbiamo dietro?».

Avete raccolto oltre che seminare?

«Lo sa quanta energia positiva, quanta felicità mette addosso questo lavoro con i Paesi poveri? Lo sa che Trieste è nota in tutto il mondo per aver formato la classe dirigente migliore di tanti Paesi?».

Ma a Roma lo sanno?

«Mah. A ogni governo la cosa va spiegata dall’inizio. E quando un nuovo diplomatico va al Palazzo di vetro e incontra delegati di mezzo mondo che lodano Trieste, deve appena informarsi per capire il perché di tanto entusiasmo. Temo che l’Italia non sappia il capitale diplomatico contenuto in questo centro».

Di cosa ha paura?

«Che Trieste perda il suo orizzonte. Non si capisce che l’Europa ha potenzialità immense. Più dell’America. Si pensa sul breve termine. Non si guarda lontano. Serpeggia la paura del diverso. Ci si lava la bocca col Parco Scientifico, si insegue l’apparenza, ma nel concreto c’è il rischio che tutto avizzisca. Si dice che non ci sono soldi. Mah. Non si capisce che mai come in questi momenti il sogno è necessario».

Un desiderio?

«Tornare a vela sul Pacifico. Ci ho navigato a ottant’anni, fu magnifico. L’immensità, la costellazione dello Scorpione e di Magellano alte nel cielo, il silenzio, la totale assenza di uomini, i grandi venti costanti, gli atolli, i pesci in livrea…».

Ljuba porta dell’altro thè. La casa sembra navigare nella notte. A prua, oltre un alberello d’ulivo, il faro di Punta Salvore pulsa nel buio.

 

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