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Ballarin (ANVGD) scrive a Simone Cristicchi – 10feb13

Il Presidente nazionale ANVGD, Antonio Ballarin, ha scritto oggi al cantautore Simone Cristicchi, impegnato a Sanremo, il seguente accorato messaggio.

 

 

Caro Simone,

Le scrivo sia a titolo personale sia perché rappresento un ‘pezzo di Popolo’.

 

Ho letto la sua intervista rilasciata su Huffington http://www.huffingtonpost.it/2013/02/08/giornata-delle-foibe-intervista-cristicchi_n_2644979.html?utm_hp_ref=italy

 

Poi ho visto il video su Youtube
http://www.youtube.com/watch?v=QVJjainpams&feature=youtu.be

 

La ringrazio a nome mio ed a nome di tutto quel Popolo.

 

Non so se lei ha mai avuto modo di stare vicino ad una persona che muore, o che sta per morire e che capisce che la sua ora stia arrivando. A me è capitato. Quando sei vicino a quella persona, capisci che nel suo intimo ha elaborato il suo lutto e, sovente, ci capita di vedere la persona che, come si usa dire, ‘se ne va serenamente’. Capisce? Con serenità! Come se la morte, sotto sotto, non faccia più paura.

 

Ma allora, che cosa fa veramente paura all’essere umano se neanche l’inevitabile morte è in grado di determinarlo? Ci ho riflettuto tanto su questa domanda e sono giunto alla conclusione che ciò che annichilisce l’animo umano è, in ultima istanza, la solitudine.

 

Forse è per questo motivo che la tortura più grande sembra essere l’isolamento. Lo stare solo con se stesso, il vagare nella propria mente senzamai confrontarsi con nessuno. Effettivamente suona come una punizione atroce.

 

Ecco, è proprio così che ci siamo sentiti per tanti anni: atrocemente soli.

 

E proprio perché soli abbiamo la libertà di apprezzare fino alle lacrime il fiore che lei ci dona con la sua arte e la sua testimonianza.

 

Ciò che dice è come un balsamo per noi. Arriva qualcuno, come lei, che si avvicina non solo alla nostra storia, ma alle nostre persone, mendicanti di libertà, verità e giustizia e ci dona un contributo che supera la nostra aspettativa, frustrata da una vita in perenne salita.

 

Sono presidente di questa Associazione da tre mesi e, uomo di mezz’età con famiglia a carico, mi guardo attorno. Vedo la gente che negli occhi riluce del mare che ha lasciato. Vedo le espressioni, il dolore ed ancora un sorriso di speranza.

 

‘No dismentighemo’ non lo diciamo con senso di becero revanscismo, ma come costante attesa di un diritto mai fruito.

 

La politica ci ha usato, tirandoci ora da una parte ed ora dall’altra.

 

Pensi alla storia della mia famiglia. Noi veniamo da Lussingrande, nell’isola di Lussino. Quando era Austria, mio bisnonno fu deportato nel lagerdi Katzenau, alla periferia di Linz. Quando era Italia, mio zio, nostromo della Marina di stanza a Pola, poiché nel ’43 si rifiuto di stare dalla parte dei tedeschi, fu deportato a Dachau. Mio padre, quando quella Terra diventò Jugoslavia, fu cacciato come tanti e peregrinò per cento capi profughi, tra risa, emarginazione, frustrazione e povertà. Ed io, che tornando nel ’70 ed ’80 come turista nei luoghi d’origine, sentivo intimarmi di non parlare il dialetto perché… era pericoloso.

 

Perché? Risposta semplice: apparteniamo tutti ad un’unica etnia, quella millenaria istro-veneta, italiana, autoctona e pacifica, talmente pacifica da essere facile preda dell’ideologia di conquista.

 

E come la mia, ci sono decine di migliaia di analoghe storie. Tutte all’insegna, come dice bene lei, dell’oblio, della sofferenza, della paura…

 

Non capisce ancora la strumentalizzazione o, peggio, l’odio per noi e la nostra storia? Anche qui la risposta è semplice: perché la nostra storia fa paura. Fa paura alle coscienze dei nostri carnefici e dei loro discendenti, e fa paura anche alle coscienze di coloro che sapendo e tacendo furono complici della nostra pulizia etnica. Quella storia si pone davanti alle loro anime e le richiama alla responsabilità per un massacro perpetrato in base a categorie umane oggi aberranti e, appena ieri, ahinoi, indiscusse verità.

 

E se dunque non si può dimenticare perché una legge lo impedisce, allora si cerca di travisare, di giustificare o, come si dice a Roma, ‘di buttarla in caciara’… ma il dolore resta. Ma resta anche la speranza e la verità della nostra storia e, infine, tanto, tanto, tanto desiderio di giustizia non ancora conseguita, ma che continueremo sempre a gran voce a richiederla.

 

Guardo la mia gente e vedo che il Giorno del Ricordo non èun punto di arrivo, ma di partenza. Da bravi eredi di una civiltà millenaria, ci tiriamo su le maniche e ricostruiamo. Non semplicemente le case squassate da un catastrofico terremoto, ma la stessa vita. La nostra identità. La nostra appartenenza viscerale ad una Terra. Il nostro desiderio di essere un unico Popolo tra esuli e comunità ancora oggi presenti ‘di là dal mar’, affinché tale Popolo viva senza aver paura di usare la propria lingua, la propria storia, la propria civiltà.

 

Sergio Endrigo è un grande, è un mito, ma sbaglia quando dice “È troppo tardi per ritornare ormai, nessuno più miriconoscerà”. Noi apparteniamo a quella Terra, non essa a noi. Noi sappiamo che la nostra Terra ci ama. Sappiamo dove siamo stati dispersi e sappiamo dove vogliamo essere sepolti. Solo dentro la nostra Terra troverà pace la nostra anima.

 

È per questo che i miei genitori, dentro la loro bara, hanno chiesto un sacchetto di Terra rossa della ‘mia’ isola.

 

Si’, caro Simone, ‘no dismentighemo’ e grazie per aver citato Bepi Nider che con il suo allegro nasone ce lo ha insegnato quando giocavamo nei nostri campi profughi. E noi che ora abitiamo le case popolari sorte su quei campi – e per cui ci fu negato, in tanti casi o per anni anche il riscatto – oppure dentro alle nostre casette borghesi in Italia, siamo sassi e pini della nostra Terra trapiantati altrove. Da qui testimoniamo ancora oggi ciò che la nostra storia ci ha insegnato: il desiderio di giustizia, bellezza, verità e libertà.

 

Antonio Ballarin, presidente nazionale ANVGD

 

PS
Grazie anche a Claudia Endrigo e Francesco Migliacci

 

 

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