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Ballarin (ANVGD) richiama Radio Radicale sul Giorno del Ricordo – 19feb13

Pubblichiamo il testo della lettera del presidente nazionale ANVGD, Antonio Ballarin, inoltrata al blogger Roberto Spagnoli (http://pasudest.blogspot.it/) in merito alla nota apparsa sulla home page di quel blog e alla trasmissione andata in onda a Radio Radicale il 14 febbraio scorso in occasione del Giorno del Ricordo. L’intervento di Ballarin può essere senz’altro utile per simili situazioni che gli Esuli si trovano ad affrontare quotidianamente, soprattutto a ridosso del 10 febbraio.

 

Roma, 18 febbraio 2013

All’attenzione di Roberto Spagnoli http://pasudest.blogspot.it/

Gentile dr. Spagnoli,

Leggo sulla home page di http://pasudest.blogspot.it/ il Suo intervento in occasione del Giorno del Ricordo 2013, ed ho udito, il 14 febbraio scorso in trasmissione, la Sua intervista alla signora Melita Richter, mandata in onda da Radio Radicale tre anni addietro. Ritengo siano da farsi diverse e fondamentali considerazioni e valutazioni circa la lettura di quegli eventi da Lei e dalla signora Richter proposta, che – in linea generale – ricalca ancora una volta non già una doverosa analisi globale di quei fenomeni storici ma quella equazione fascismo-foibe che la più avvertita storiografia contemporanea ha finalmente destrutturato e rivelato per larghissima parte infondata, alimentata dai dogmi interpretativi imposti dall’ortodossia comunista italiana e jugoslava, che avvolgeva nel vessillo dell’internazionalismo socialista la guerra di occupazione e di annessione di quei territori di antica – e largamente prevalente, almeno per l’Istria e Fiume – cultura, lingua e civiltà italiane, attribuite all’Italia dopo la Prima guerra mondiale da trattati internazionali.

Da Roberto Spazzali a Giuseppe Parlato, da Marina Cattaruzza a Gianni Oliva, da Stelio Spadaro a William Klinger, dal compianto Elio Apih a Giuseppe de Vergottini a Luciano Monzali, studiosi di formazione diversa ma liberi dai decaduti condizionamenti ideologici, hanno restituito ai tragici accadimenti del «confine orientale», nel Novecento – l’esodo della popolazione italiana autoctona e gli eccidi delle Foibe – la loro reale natura di progetto annessionistico, perseguito mediante i caratteristici sistemi del totalitarismo comunista (deportazioni, sparizioni, esecuzioni, «tribunali del popolo», liste di proscrizione, violenze generalizzate e soppressione dei minimi diritti civili e umani). Così come esplicitato a chiare lettere da Milovan Đilas, a quell’epoca stretto collaboratore di Tito e confermato dalla prosecuzione delle violenze ben oltre la fine del conflitto.

Diversamente da quanto affermato nel Suo intervento e nell’intervista alla signora Richter, a nostro avviso la riflessione sulla storia moderna di quella regione non può assumere il solo Novecento come arco temporale degli eventi, non potendo prescindere dalla configurazione impressa a quei territori dal trattato di Campoformido, che segnò un radicale mutamento dell’assetto di quelle aree per lunghi secoli conformate in ogni loro aspetto dall’appartenenza alla Repubblica di Venezia, e da quella data (1797) inseriti in un nuovo, inedito ordine europeo.

La «soglia» alla quale fa riferimento la signora Richter, intesa quale auspicato confine aperto alle intersecazioni e alle contaminazioni, nasce in realtà nella regione giuliana e dalmata nella lunga durata della civiltà latina e occidentale garantita dai liberi Comuni italiani della sponda orientale dell’Adriatico e dai loro Statuti civici: l’antica consuetudine alla compresenza e alla relazione con comunità alloglotte scaturisce da quel modello di vita pubblica regolamentato dalla legge intesa quale patto tra cittadini, rispetto a vincoli di sangue, di etnia, di tribù, di clan. E dunque quella «soglia» verso la quale la sensibilità contemporanea è orientata dopo il secolo degli opposti totalitarismi non è, per la storia di quelle regioni, un semplice auspicio per il futuro ma un antico e sedimentato costume civile.

Il collasso dei regimi comunisti nell’Est europeo e quindi dell’intera impalcatura ideologica novecentesca, ha lentamente permesso di avviare un complesso percorso di analisi della storia – ancora in fieri – e non limitatamente al Novecento, benché questo secolo sia stato, per la popolazione italiana giuliana e dalmata di antico insediamento, drammaticamente decisivo. La sorte degli italiani della costa orientale adriatica può ben assumersi a paradigma della barbarie ideologica del secolo scorso, avendo essi pagato sul loro territorio, con le loro vite e i loro beni, lo scontro tra le due opposte ideologie totalitarie: la seconda delle quali, la jugoslava, ha irrimediabilmente modificato un antico equilibrio etnico, come riconobbe un grande storico liberale quale l’istriano Ernesto Sestan.

La vera e propria pulizia etnica subita dagli italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia – perpetrata mediante espropriazioni, eccidi, intimidazioni, e quanti altri strumenti della repressione codificati – scaturì dall’incontro perverso tra nazionalismo esasperato e odio di classe, essendo identificato il cittadino italiano, a qualunque ceto e orientamento politico appartenesse, come «nemico del popolo». Si volle pervenire alla soluzione dei problemi delle aree mistilingui mediante l’eliminazione fisica del «nemico totale» (del popolo, della razza) e l’espulsione delle popolazioni non desiderate dal territorio dello Stato totalitario. La qual cosa è accaduta con gli italiani delle province orientali, indistintamente. Al contrario, nei territori carsici, mai popolati da comunità italiane, acquisti nel 1918 all’insegna di un’aberrante ottica di spartizione come compendio per la mancata assegnazione all’Italia di luoghi della Dalmazia senza dubbio di matrice veneta – come Veglia, Brazza. Lesina, ecc. – la becera campagna di snazionalizzazione perseguita dallo Stato italiano, non priva di violenza e soprusi, non portò allo sradicamento sociale né, tanto meno, all’eliminazione fisica dell’etnia storicamente lì insediata.

In questo quadro, la stessa Resistenza non comunista, presente nel drammatico scenario degli anni 1943-’45, venne marchiata d’infamia dal PCI e dal movimento comunista «titino» perché non succube e contraria agli ordini di cedere sovranità e comandi ai reparti jugoslavi. A quella Resistenza patriottica si può finalmente rendere oggi onore e menzione.

A partire dalla istituzione del Giorno del Ricordo, approvata nel 2004 pressoché a maggioranza del Parlamento, le più alte Istituzioni della nostra Repubblica hanno inteso accompagnare le comunità giuliano-dalmate esuli e le comunità italiane sopravvissute nei territori oggi soggetti alla Slovenia e alla Croazia, nel delicato cammino del recupero della memoria storica e della restituzione di essa alla coscienza e alla conoscenza dell’intera Nazione: dopo oltre 60 anni di marginalità e di indifferenza, vere, riscontrabili e testimoniate dall’assenza di quei temi nel pubblico dibattito e nei testi scolastici da almeno la seconda metà degli anni Cinquanta, chiusa la «questione di Trieste».

In particolare, il Presidente Napolitano ha voluto assumersi sin dal 2007, con limpida chiarezza e grande equilibrio, l’onere di indicare alle Istituzioni italiane il dovere di restituire agli esuli italiani il diritto al ricordo e al Paese intero la memoria di una regione ad esso intimamente legata per comuni costumi e vicende: avendo lucidamente sollevato scandalo con l’affermazione, in occasione del Giorno del Ricordo del 2007, della vera natura nazionalistica, repressiva e totalitaria, del regime jugoslavo di Tito.

Circoscrivere l’analisi di quei tragici accadimenti ai venti anni di fascismo, che l’Italia democratica ha doverosamente ripudiato e che invece ha oscurato l’intera plurisecolare storia civile della regione giulia, significa voler colpevolmente riposizionare nell’angolo il dolore e l’offesa patiti dagli esuli giuliani e dalmati e depauperare la nostra comunità nazionale sopravvissuta al regime titoista degli strumenti indispensabili per tutelarsi quale residua comunità autoctona.

In un contesto, quale quello degli Stati successori dell’ex Jugoslavia, nel quale, ancora oggi, non sono sopite vecchie pregiudiziali etnocentriche e radicate resistenze all’affermazione di un’idea plurale del territorio nazionale.

Quanto all’immagine cui Lei fa riferimento, impropriamente utilizzata da anni nei più vari siti Internet, e finanche da agenzie di stampa e pubbliche amministrazioni a riprova dell’ignoranza prevalente su questi argomenti, ritengo e riteniamo fermamente che non possa e non debba essere utilizzata – incoscientemente o consapevolmente – per illustrare gli eccidi delle Foibe, per le ragioni che ho più sopra enunciato. L’ondata di violenze abbattutesi in Dalmazia e nella Venezia Giulia sia nel 1943-’45 e proseguita, successivamente, fino agli anni ’50 con stragi, eccidi, persecuzioni, intimidazioni e carcerazioni – a partire dall’attentato di Vergarolla a Pola, del 1946 – non rispondeva più ad alcuna esigenza militare. Le popolazioni italiane dell’Istria non alimentavano alcuna guerriglia, né erano in grado di farlo, sia nel settembre 1943, nel vuoto totale di qualsivoglia struttura militare italiana, sia nel 1945, dopo due anni di occupazione tedesca, spesso sofferta allo stesso modo delle popolazioni slave.

In conclusione, le associazioni dell’esodo – ed in primis l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia della quale mi onoro di essere Presidente –, così come le comunità italiane d’oltreconfine, reclamano il diritto a testimoniare in prima persona di quegli eventi richiamati dal Giorno del Ricordo, e più ampiamente della cultura civile di quelle regioni travolte dai conflitti etnici e dalle barbarie tribali che abbiamo veduto rinnovarsi nelle guerre balcaniche degli anni Novanta. Sono certo che Lei vorrà dedicare analogo spazio, sul Suo blog e nelle trasmissioni da Lei condotte, a questo intervento e a quanti vorranno proporre riflessioni e testimonianze su un passaggio irreversibile della storia e dell’esistenza dei cittadini italiani espropriati delle prospettive di vita, degli affetti e dei beni nei luoghi natali, ed ancora oggi intenti pazientemente e operosamente a ricostruire la propria identità.

 

Antonio Ballarin, presidente nazionale ANVGD

 

 

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