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Avvenire – 240208 – Kosovo: storia e cultura al di là dell’Adriatico

di Giorgio Pressburger

 

Trasformare la conflittualità in un’occasione per consentire al Vecchio continente di muovere il passo decisivo verso la sua nuova identità: è la sfida che ci arriva dai nostri vicini. Che per secoli abbiamo abbandonato, ignorando i tesori della loro ricca civiltà come in molte nazioni del mondo esiste un territorio abbandonato dall’attenzione del resto della popolazione, così anche nel nuovo volto politico del nostro continente c’è un luogo a lungo lasciato al suo destino: i Balcani. Eppure nella storia europea di questi ultimi mille anni i Paesi chiamati con questo nome cumulativo hanno avuto un ruolo importantissimo, a volte decisivo.

Tanto per dirne una, la Prima guerra mondiale, di proporzioni e crudeltà senza precedenti nella storia dell’umanità, è cominciata proprio lì, più precisamente nella città di Sarajevo.

Questa città è tristemente tornata a essere campo di battaglie sanguinose, pochi anni  fa. Le popolazioni, antichissime, che abitano questi territori in realtà non hanno avuto mai pace. Lungo tutto l’arco del millennio passato si sono combattute tra loro, subendo anche sconfitte sanguinose da nemici esterni, come accadde ai serbi il 28 giugno del 1389 a Kosovo Polje dove l’esercito turco del sultano Murad sconfisse e massacrò gli uomini del principe serbo Hrebeljanovic. Da allora sono passati sei

secoli, ma il Kosovo non ha conosciuto tregua. Tra dominazioni turche, riconquiste, guerre fratricide e guerre di religione quella parte dimenticata dell’Europa è stato un serbatoio di indicibili sofferenze.

Quale delle grandi potenze europee se n’è preoccupata? Forse la Gran Bretagna, che pure ha messo il piede in mezzo mondo? La Spagna, che ha dato inizio alla moderna civiltà dell’America del Nord e del Sud, ma da quelle parti non si è mai spinta? Il grande Impero asburgico? La Francia dal potere centrale presto consolidato? L’Italia spezzettata in ducati, granducati, comuni, rioni? La Germania , altrettanto spezzettata?

Oggi, che l’Europa ha trovato un volto unitario, una cultura unitaria, nonostante tutto considera poco quella sua parte, non ha fatto nulla di nulla per portare pace e benessere in quelle terre. Come se queste si trovassero su un pianeta lontano, come se ciò che avviene lì fosse irrilevante. Eppure vi fiorisce una grande e antica cultura, arricchita di immensi tesori durante l’avvicendarsi di nazioni, popoli, civiltà tra le più disparate. Ci siamo forse preoccupati di sapere chi erano gli Illiri, i Valacchi, i Traci, i  Dardani che hanno popolato quel lembo del nostro continente? Che cosa hanno fatto lì gli antichi Greci, i cui miti fondanti spesso si svolgono proprio da quelle parti? E chi sono gli albanesi, che

popolazione è, che lingua parla? Come sono fatti i monumenti storici,  la chiesa del Sant’Arcangelo a Pristina, quella di San Giorgio, la cappella di San Nicola?

Sappiamo forse quale fosse la grande civiltà dell’Impero ottomano di sultani come Maometto II (eppure Babington l’ha descritta in un libro esemplare)? Pensiamo forse al Èfatto che buona parte della popolazione del Kosovo conosce la lingua turca come il serbo e l’albanese? Quella terra insanguinata, combattuta, bombardata è un esempio di civiltà multietnica, che può darci insegnamenti preziosi per la comprensione del passato, del futuro e del presente.davvero venuto il momento che cominciamo a interessarci della letteratura, della musica, della pittura dei popoli che vi abitano, delle loro usanze, e della loro umanità. L’Europa, la grande Europa che sta riformulando la propria presenza nel mondo, soltanto in un caso così esacerbato com’è quello di questi giorni rivolge lo sguardo a questi popoli. Ma è ancora uno sguardo appannato. Non si avverte nemmeno ora un vero interesse per quei nostri vicini. I soldati delle Nazioni Unite vi si sono installati. Ma un europeo medio non sa nulla di quelle terre, della loro storia, e degli esseri umani che le abitano. E se si interrogasse poi un nordamericano di media cultura non saprebbe forse nemmeno dove si trovi quel puntino di terra che si chiama Kosovo.

Eppure i soldati del suo popolo sono arrivati sin lì a bombardare e a combattere. Non parliamo dei nostri concittadini. Gli aeroplani in missione bellica sono partiti da noi, dalla base americana di Aviano, in Friuli, e sessant’anni fa i nostri padri e nonni si sono avventurati fin lì per estendervi l’Impero di Mussolini. Lì, in Albania, in Grecia.

E del resto molti albanesi si sono rifugiati quattro cinque secoli fa proprio in Italia, stabilendosi per sempre in Sicilia e in Calabria. Un eccellente scrittore italiano, Carmine Abate, che scrive anche in arbëreshë, cioè nella lingua degli albanesi italiani, viene proprio da questi antichi transfughi. Dovremmo provare un grande senso di disagio, di fronte a quelle popolazioni. Ma pensando invece 'in positivo' resta comunque la possibilità di venire oggi in loro aiuto, di portarvi la pace e non gli strumenti dei nostri egoismi. Di appianare i dissidi religiosi e etnici e non considerare soltanto come perturbatori della nostra quiete (quale, poi) quei popoli. E a quella parte della Terra, alla gente, agli esseri umani che la abitano, resta il compito di mettere da parte quel sentimento che chiamiamo nazionalismo, il quale spesso raccoglie in sé aggressività innate nell’uomo, volontà di sopraffazione e chiusura quasi autistica. Quel sentimento ha avvelenato la storia del passato millennio, è venuto il momento di metterlo davvero da parte.

Stiamo assistendo a un atto politico e creativo senza precedenti nella storia: la costruzione pacifica della nuova Europa. Occorre approfittarne nel migliore, nel più onesto dei modi.

 

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