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arcipelagoadriatico -080208 – Mons. Ravignani: la forza del dialogo

Intervista con il Vescovo di Trieste in occasione del Giorno del Ricordo

“La frase seguente non è mia ma esprime un concetto che condivido: “noi siamo, e lo siamo stati per tanto tempo, ai confini della Patria ma non della Chiesa”.
Curia di Trieste, davanti a noi il Vescovo Mons. Eugenio Ravignani per ragionare di territorio,Chiesa, genti, prospettive. La Città e la sua Chiesa, nel secolo breve, sono state un binomio stretto, hanno vissuto un rapporto osmotico che le ha fuse e plasmate, soprattutto durante e dopo la seconda guerra mondiale. Una città storicamente laica riscopriva così le sue radici religiose per trovarsi oggi, forse ad una svolta, o forse semplicemente di fronte ad un’altra importante evoluzione.
Cosa cambia, eccellenza, con la caduta dei confini?
“Trieste ritrova il suo spazio che le era naturale; spero sappia cogliere questa opportunità. Comunque si tratta di questioni che riguardano principalmente la politica e l’economia. La Chiesa, pur con la necessaria discrezione e con grande rispetto, è sempre stata attenta ed aperta alla comprensione di un fatto molto grave e doloroso: quello dei confini che sono stati, per anni, invalicabili, provocando sofferenza nelle persone che hanno lasciato le loro case e le loro terre e ne hanno vissuto, e vivono ancora, un ricordo velato di tristezza e perché no, di nostalgia. Si è cercato di mantenere un dialogo con le diocesi vicine, anticipando i tempi attraverso varie forme di collaborazione, di incontro tra vescovi, tra sacerdoti e parrocchie di un territorio che allora era diviso ed ora non lo è più. La caduta delle barriere è certo un evento storico che può favorire nuovi e più intensi rapporti anche tra le Chiese".
Dialogare tra le Chiese del territorio è più facile in loco o durante gli incontri a Roma?
"Ora certo è più facile in loco per le tante occasioni che si offrono. A Roma ci si incontra durante le assemblee generali della Conferenza Episcopale Italiana, a cui partecipano come invitati vescovi dei Paesi vicini dell’Est Il dialogo c’è sempre stato; non è venuta mai meno la comprensione e la collaborazione: Tra vescovi ci si incontra, ci si confronta, si affrontano problemi. Sono divenute sempre più frequenti e normali le visite, come pure da parte nostra, la partecipazione alle riunioni delle Conferenza episcopali locali e fraterna è l’accoglienza. Insieme si dibattono i problemi che, dovunque oggi, si pongono alla fede dei cristiani e alla loro chiara e coraggiosa testimonianza".
C’è qualche ricorrenza, qualche evento che vedrà le Chiese del territorio circostante partecipare assieme?
"Non ne vedo prossimamente. Ma, come ogni anno, il 12 luglio si incontrano tutti i vescovi che hanno fatto parte dell’antico patriarcato di Aquileia. Vengono dalla Slovenia, dalla Carinzia, dalla Slovenia e dalla Croazia, e, naturalmente, dal Friuli Venezia Giulia e dall’Italia settentrionale".
Che significato ha oggi il ricordo del Patriarcato?
“Ci si incontra di nuovo in una storia che non è né passata né dimenticata e che ogni anno riprende significato e e vigore dalla celebrazione solenne nell’antica basilica di Aquileia: per noi è come ritornare alle sorgenti della fede cristiana di queste nostre terre. E’ la storia di una vasta regione mitteleuropea che univa in un’unica fede le varie etnie o, se preferisce, i vari popoli. Ed è pure occasione per ricordare i grandi patriarchi tra cui Paolino, e, quest’anno celebrare il XVI centenario di Cromazio di Aquileia”.
Lei partecipa da qualche anno a Fiume alla Messa di San Vito. Che significato ha questo evento?
“E’ un incontro molto bello che devo alla delicata e cortese ospitalità del vescovo di Fiume, alla cui consacrazione vescovile sono stato presente. E’ stato allora che è nato tra noi un vincolo sacramentale che ci unisce aldilà di quelli che sono ancora i confini e che sono le lingue che parliamo. E così ogni anno vado a celebrare la Messa e ad incontrare con gioia questa nostra gente e un vescovo che stimo moltissimo. Lui mi saluta, siamo sull’altare assieme, lui saluta gli italiani, io saluto lui e diamo ai fedeli un esempio che considero di grande fraternità. Ci sono i bambini delle scuole materne italiane che portano i loro doni: cattedrali di San Vito in miniatura fatte con cartoni di imballaggio, disegni che raffigurano San Visto, e via dicendo, fino a quando giunge il momento del commiato e mi sento dire dai fedeli “vescovo perché no la vien più spesso?”. Questo, però, è un altro discorso”.
Lei ha celebrato la Messa anche a  Pola, sua città natale, com’è stata questa esperienza?
“C’è sincera fraternità tra me e il vescovo attuale, mons. Ivan Milovan e c’era una profonda amicizia con il vescovo che l’ha preceduto, mons. Anton Bogetić. La prima volta che potei farlo la ricordo ancora. Avevo accompagnato in una visita in Istria alcuni studenti di teologia e feci visita a Parenzo al vescovo Bogetić. Fu proprio lui a stupirsi che io non avessi mai celebrato nella mia città, nella basilica cattedrale dove sono stato battezzato. Così mi invitò a farlo. La sera di quello stesso giorno trovai ad accogliermi sulla porta della cattedrale il parroco e con lui le famiglie di connazionali che mi offrirono un omaggio floreale. Ne fui commosso, ma lo erano anche loro. Qualche anno dopo ritornai, accogliendo linvito di mons. Bogetić a celebrare con lui il cinquantesimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale, nel giorno di San Tommaso, patrono della città. C’è stato sempre stato un dialogo tra vescovi; ora dobbiamo farlo crescere tra le nostre comunità, che oggi vivono situazioni molto diverse rispetto alla storia passata”.
Il confine sta sparendo… ma le barriere che abbiamo dentro?
“Sono spesso il frutto delle sofferenze del passato che sono state di tutti, degli esuli e di coloro che sono rimasti. Dobbiamo aiutare le persone a superarle queste barriere, continuando però a custodire con rispetto la memoria di tanto dolore. Con la caduta dei confini questo processo diventa più semplice anche perché, per quanto posso ricordare, abbiamo alle spalle un retaggio importante: negli anni della cortina di ferro la nostra diocesi di Trieste era divenuta luogo di passaggio per molti vescovi d’oltre confine che qui trovavano fraterna accoglienza ed aiuto solidale. Per noi era un sentito dovere, ma non lo era meno la loro gratitudine”.
Che cosa bisogna avere per essere vescovo di Trieste e quale ruolo assume il dialogo ecumenico?
"
Non so che cosa bisogna avere per fare il vescovo di Trieste, forse tutto quello che io non ho (ride divertito). Occorre avere presente la realtà storica della presenza di Chiese non cattoliche a Trieste: da secoli vivono in questa città. Nel tempo del dopo Concilio Vaticano II era doveroso avviare un dialogo ecumenico. E fu il mio vescovo a mandarmi ad incontrare i responsabili delle comunità cristiane presenti in città, ortodossi e protestanti, nel 1967. Da allora è andato intensificandosi e ritengo che per la città possa essere molto importante. Notevole per l’esempio di profondo rispetto che produce. E’ vero che abbiamo visioni di fede con accentuazioni di diversità anche teologiche, ma il dialogo è possibile se ci rispettiamo a vicenda ci rispettiamo nelle diversità con cui ci accostiamo alla verità. Tra noi parliamo con chiarezza e ciascuno mostrando chiara la sua identità e quando ci ritroviamo assieme per pregare non è una cerimonia qualunque, che ci impegna ogni tanto, ma è la convergenza spirituale di diverse espressioni cristiane. E sincero è pure il dialogo con la Comunità ebraica, anche perché gli ebrei sanno cos’è stata la Chiesa cattolica per loro negli anni tristi e bui della persecuzione. Il vescovo Santin, che i suoi coraggio interventi ha salvato la vita di non poche persone, ha conservato nella sua casa – questa dove ora stiamo parlando – i più preziosi tesori della Comunità ebraica per restituirli alla fine della guerra. E vi pure un cordiale rapporto con il Centro Culturale Islamico, perché è giusto vivere nella carità vicendevole e nell’amore fraterno che deve portare al rispetto delle diversità”.
Aver vissuto la tragedia di Pola, l’aver condiviso con monsignor Santin tante vicende l’aiutano nella sua opera?
“Certamente mi hanno supportato nel mio operato, ma quello a cui do molta importanza è l’educazione che in questa Chiesa di Trieste ho ricevuto. Non sarei mai stato così convinto della necessità di questa apertura al dialogo se non avessi avuto chi mi ha messo su questa strada”.
L’apertura religiosa e il dialogo tra comunità ha portato Trieste a godere di un’immagine a livello internazionale, pensiamo ad esempio al turismo che arriva in città proprio per vedere questi luoghi dove le diversità s’incontrano.
“Ricordo, per fare un esempio, l’anno 2000, quello del Giubileo. Noi, come diocesi di Trieste avevamo realizzato, con la collaborazione del Comune, un cd ed un volumetto dal titolo “Incontro a a Cristo nel 2000”. Era stata una cosa molto bella per offrire un’immagine non solo ai turisti, ma anche ai concittadini, della ricchezza nella diversità di chiese e comunità religiose a Trieste. Ebbe successo perché era improntata proprio all’apertura ed all’interazione tra Chiesa e vissuto, tra Chiesa e Città”.
Le nostre terre hanno dato alla luce molti uomini di chiesa anche molto importanti per il messaggio cha hanno lasciato ai posteri. Crede che le giovani generazioni possano continuare tutto questo?
“Vede, i giovani hanno un unico difetto, quello di non aver vissuto certe situazioni, per il resto sono molto disponibili e pronti al dialogo ecumenico. Tutta questa apertura dipende anche dal clima che hanno vissuto quando sono diventati preti”.
Come hanno vissuto Trieste e la sua Chiesa la polemica sulla mancata visita di  papa Benedetto XVI all’Università La Sapienza di Roma?
“Con molto rispetto e manifestando evidentemente il proprio affetto per il Santo Padre, ma senza dichiarazioni e senza denunce. Forse tutta la vicenda meritava una profonda meditazione sui fatti. Il cardinale Ratzinger era già stato, quand’era Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede alla Sapienza, dove aveva tenuto una lezione proprio sui problemi della scienza e sulla questione Galileo. L’aver estrapolato da quel suo discorso una citazione di un filosofo laico, che non rifletteva tuttavia il pensiero del cardinale, ha innescato una gratuita e ingiusta polemica, a cui ha fatto seguito una spiacevole strumentalizzazione”.
Tra gennaio e febbraio ci sono due date che sono diventate importanti per ricordare fatti storici che hanno segnato il Novecento. Giornata della Memoria e Giorno del Ricordo. Una sua riflessione.
“Custodire la memoria venerandola per il rispetto che si deve a tutti coloro che hanno sofferto. Rendere questa memoria libera da ogni risentimento, per quanto è possibile, ed impegnarsi nel dialogo, nella comprensione, nell’accoglienza, nella riconciliazione”.
Intende tornare a Pola a dire messa?
“Per adesso non ho alcun programma, ma certo ci andrei volentieri".
In che modo l’Unione Europea, nel mosaico di culture e popoli, contribuisce alla vostra opera?
“Nella misura in cui si riscoprono le radici cristiane dell’Europa anche se oggi questo è oggetto di un dibattito scomodo e perciò sottaciuto. Le radici europee sono per forza radici cristiane, differenti nelle più disparate confessioni religiose, ma pur sempre cristiane. L’Unione Europea non può essere mai a scapito di un’identità nazionale e men che meno di una identità religiosa.. Perché se facciamo diventare l’Europa una realtà in cui le varie identità finiscono per assimilarsi fino a scomparire, non avremo creato la ricchezza delle diversità nell’unità, ma solo una grande povertà”.

Rosanna Turcinovich Giuricin
(intervista pubblicata su "La Voce del Popolo" dell'8 febbraio 2008) 

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