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Arbe e Isola Calva, i simboli di morte della storia (Giornale Brescia 02 nov)

Dall'inviato Valerio Di Donato

ARBE (Croazia)La porta di quello che fu un inferno a ideologia variabile, per i nemici, veri o presunti, del «sistema», ha la forma di uno zigomo di costa bellissima che sporge dal volto frastagliato del Quarnero. Solo conoscendo un po' di storia del Novecento ci si sente attraversare da un fremito d'angoscia, capace di offuscare il bagliore mozzafiato del connubio secco, mare-montagna, che esplode nella cornice di una Natura inviolata.

Si scende con l'auto all'imbarco di Jablanac, lasciando la strada scolpita ai piedi del Velebit, che da Fiume prosegue poi per Zara e Spalato nella contigua Dalmazia. L'occhio fissa un mare dalla cresta ribelle per catturare in un unico sguardo la grande isola di Arbe e lo scoglio pelato dell'Isola Calva, o Nuda. Rab e Goli Otok nella toponomastica croata. Simboli aberranti l'una del crepuscolo del fascismo mussoliniano, l'altra dell'alba tragica del comunismo titino. E forse dell'inizio della sua fine. E' possibile provare a raccontare insieme, contestualmente, senza confusione ma anche senza pelose differenziazioni, due vergogne per l'umanità, due drammi epocali certo non collegati da un filo diretto causa-effetto, ma niente affatto lontani? Certo, visto che si consumarono in spazi contigui e in tempi troppo ravvicinati per non colpire la sensibilità di chi voglia ragionare sul male e sulla perversa intercambiabilità dei totalitarismi e nazionalismi.

Arbe oggi è un must del turismo internazionale. Ma fra le estati del 1942 e 1943, l'Italia vi deportò, su un terreno paludoso e sistemati in malconce tende militari, 16.000 fra sloveni (i più) e croati. Intere famiglie, vecchi e bambini compresi, «colpevoli» di aver aiutato o protetto i partigiani titini. Fra i 3mila e i 4mila (ma alcune fonti parlano di 4.600) i morti, per malattie, freddo, fame. A parziale riscatto del nostro non esemplare operato, resta la protezione data a 3.300 ebrei portati dalla Dalmazia nel campo di Arbe, strappandoli così a morte sicura nei lager nazisti.

All'Isola Calva, nel peggior gulag del dopoguerra, il maresciallo Tito ammassò fra il 1949 e il 1956 e ridusse a larve umane i cosiddetti comunisti «cominformisti», ossia fedeli a Stalin, dopo la rottura dell'estate '48 fra la nuova Jugoslavia socialista e il gigante sovietico. Le cifre più serie parlano di circa 17.000 internati e 450 morti, per torture, epidemie, suicidi e fucilazioni. Per non parlare dei menomati fisici e psichici a vita. I perseguitati dalla polizia politica di Tito (l'Udba) in tutta la Jugoslavia furono però molti di più: oltre 50mila, contando anche i famigliari dei puniti. Nessuna graduatoria è moralmente ammissibile fra le due esperienze. Ma come non cogliere che ciò che accadde nelle pietraie dell'Isola Calva e nel vicino scoglio di San Gregorio, venne giustificato in nome di una società «nuova» di «giusti ed eguali», nata dal sacrificio e dall'audacia di molti degli stessi deportati, lì mandati ad «emendarsi» dagli ex compagni di lotta?

E come può il nostro Paese ignorare che il prezzo della terribile purga nazional-titina lo pagarono anche qualche centinaio di volenterosi comunisti italiani (la maggior parte di Monfalcone) che, nel 1947, passarono la cortina di ferro per contribuire a forgiare il socialismo nella nuova Jugoslavia? E questo proprio mentre decine di migliaia di altri italiani fuggivano dalle vessazioni del regime? Duecento di loro finirono nel buco nero di Goli, 14 vi persero la vita, altri quattrocento furono intruppati nelle «brigate del lavoro volontario», a costruire ponti, strade e ferrovie ai quattro angoli della Federazione. Chi riuscì a tornare in Italia fu umiliato ed emarginato, a partire dal Pci di Togliatti, che pure ne aveva favorito la generosa missione di «solidarietà internazionalista».

Tutto documentato nel libro-verità «Goli Otok, italiani nel gulag di Tito», scritto da Giacomo Scotti, eclettico giornalista, saggista e poeta italiano residente a Fiume dal '47. Il suo è un testo obbligato per tentare di capire qualcosa di un universo concentrazionario forse più paranoico nella perversione degli strumenti impiegati degli stessi lager nazisti o dei gulag staliniani.

All'Isola Nuda ci si può sbarcare anche fuori stagione, quando le linee regolari sono sospese e i turisti rarefatte presenze. E andarci accompagnati da un pescatore arguto e gentile come Darko Pecarina è forse ancora più istruttivo. Con lui giriamo fra i ruderi paurosamente «vivi», parlanti, del lager, calcando le stesse pietre rosate, aguzze e involontariamente sadiche che centinaia di disgraziati erano costretti a frantumare e trasportare come croci di roccia sulle spalle di cristiani catacombali. Ed è lui a raccontarci che suo padre ci lavorò come secondino nella «Goli Otok due».

Pochi sanno, infatti, che, ricuciti i rapporti con la Russia di Kruscev, l'isola venne riconvertita in un penitenziario-modello per criminali comuni.

Fabbriche, officine, moli, alloggi – in totale abbandono dopo la chiusura nel 1988 dell'Alcatraz adriatica – tutto fu costruito con le mani piagate dei prigionieri politici, e fruito poi da assassini rieducati loro sì in modo umano, con un lavoro normale e persino retribuito. Per gli «amici di Stalin», viceversa, la rieducazione a Goli era affidata all'«autogestione della pena». Gli stessi compagni di sventura (quelli che il poeta istriano Eligio Zanini, ex deportato sull'isola, avrebbe definito «robot

riprogammati») dovevano picchiare, torturare, convincere a pentirsi i nuovi arrivati. Metodi che, osserva Giacomo Scotti, «erano frutto della sintesi dei peggiori sistemi adottati in passato dalla polizia zarista, dalle SS naziste e dagli aguzzini di Stalin».

A ricordare la tragedia di Arbe è rimasto invece il cimitero dei «sommersi», le vittime del lager fascista.

Ma la Croazia «patriottica» ha rimosso tante, troppe verità. «Nei libri scolastici ufficiali la seconda guerra mondiale viene praticamente saltata, a beneficio della recente "guerra patriottica" (quella del 1991-95, ndr). Di Arbe e Goli Otok non si dice nulla. Solo gli insegnanti più volenterosi possono integrare la bibliografia in un ambito molto ristretto di scelte», racconta il professor Ivo Baric, presidente dei «Combattenti antifascisti del Comune di Arbe». L'associazione, sostenuta da una municipalità coraggiosa, è una sentinella solitaria della memoria, che organizza seminari, dibattiti, visite guidate al memoriale di Kampor. E anche a Goli Otok.

«Nessuna ostilità verso l'Italia, anzi. – assicura Baric – Qui raccontiamo le efferatezze della seconda guerra mondiale e di Goli in nome del dialogo e della pace». «In quella bellissima baia l'inferno era per tutti», descriveva nel romanzo «Martin Muma» il proprio martirio Eligio Zanini. È proprio così.

L'inferno era talmente ben nascosto nelle sembianze di un paradiso, che ancor oggi servono lenti correttive per accorgersene. La memoria ha la vista lunga.

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