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Aise – 09.06.08 – De Vergottini, l’ambasciatore delle missioni impossibili

MONTEVIDEO\ aise\ – ""Sono stato esule e rifugiato anche io. Non posso lasciarli soli". Fu questa la risposta che Tomaso de Vergottini, 40 anni ancora da compiere ed una carriera diplomatica all’orizzonte, diede alla moglie che lo prese per pazzo quando si offrì di partire per il Cile, fresco del colpo di Stato. Erano gli ultimi giorni del 1973. L’11 di settembre i golpisti guidati da Augusto Pinochet avevano bombardato la Moneda, Salvador Allende, il presidente che avviò "la via cilena al socialismo" fu trovato morto nel suo ufficio, la Giunta militare cominciò una persecuzione sistematica degli oppositori che fece scuola poi per il cosiddetto Plan Condor. Per una coincidenza l’Ambasciatore italiano in carica, Norbeto Behman dell’Emo, non si trovava a Santiago nei giorni del golpe e l’Italia, non volendo riconoscere il governo di Pinochet, decise di mandare un incaricato d’affari. De Vergottini si offrì spontaneamente. Il senso della missione sta tutto in quella frase detta alla moglie Anna Sofia: l’umanità, il coraggio di gettare il cuore oltre l’ostacolo, il senso del dovere, l’equilibrio e l’ambizione". Si apre così un lungo articolo, a firma di Federica Manzitti, pubblicato oggi sulle pagine di Gente d’Italia, il quotidiano delle Americhe diretto da Mimmo Porpiglia, dedicato alla figura dell’Ambasciatore Tomaso de Vergottini, scomparso pochi giorni fa a Montevideo.

"Giovane diplomatico, padre di un bambino di 5 anni, de Vergottini era stato Console ad Insbruck e Norimberga. Poi consigliere a Tel Aviv. Santiago del Cile rappresentava un trampolino di lancio nella carriera, ma anche un rischio molto grande. Non bastava la ferocia della giunta militare, l’ambigua posizione diplomatica assunta dal nostro governo che comportava la mancanza delle garanzie che la figura di un Ambasciatore normalmente implica, i rifugiati, più di cento, accampati nella residenza; c’era anche l’impetuosa protesta di una parte consistente dei 25mila italiani residenti in Cile, nostalgici del fascismo e sostenitori di Pinochet. Ma evidentemente al flemmatico e timido ex Console di Norimberga, le sfide non facevano paura. Lui era figlio di istriani, nato a Parenzo nel 1933, fuggito con la madre e la nonna dopo che il padre era stato infoibato dai partigiani jugoslavi, aveva vissuto da bambino qualcosa di simile a quello che stavano vivendo i cileni anti-golpe. Qualcuno lo credette socialista per la determinazione che mise nel tentativo di salvarli, ma era semplicemente un uomo di centro che di fronte alla violazione dei diritti umani sentiva l’imperativo morale di opporsi. Credettero addirittura che sua moglie Anna Sofia fosse ancora più a sinistra di lui, tanto da felicitarsi per un viaggio della signora fuori dal Paese, come scrissero alcuni italiani in Cile manifestando tutta l’avversità che provavano per loro. Ma anche questo non bastò a far desistere la coppia. Rimasero nel Paese di Pinochet con il figlio Antonugo per dieci anni. La missione cominciata nel dicembre del 1973 doveva essere "per tre mesi", terminò nel 1984.

De Vergottini ha lasciato un libro di memorie "Cile: diario di un diplomatico 1973-1975", tradotto poi in italiano nelle edizioni Koiné con la prefazione di Giulio Andreotti ed oggi studiato nelle Università cilene. La sua missione è un caso unico nella storia della diplomazia internazionale, impossibile probabilmente senza l’imperturbabilità e la determinazione di quell’uomo, spentosi a 75 anni a Montevideo lo scorso 26 maggio. Montevideo fu la destinazione successiva al Cile.

"In Uruguay riuscimmo a vedere la fine di una dittatura come non avevamo fatto in tempo in Cile. Fu un po’ una ricompensa per noi, anche se gli impegni non mancarono di certo". Anna Sofia è la combattiva vedova del diplomatico. Una donna di carattere, che maschera l’umanità dietro una ruvidezza affascinante. Non potrebbe essere altrimenti, visto che neppure lei si è mai tirata indietro durante l’avventura cilena. La signora Anna Sofia andava a fare la spesa col camion, "dovevamo sfamare fino a 250 persone al giorno", tanti quanti erano gli esiliati che per per cinque mesi vissero nella nostra sede diplomatica. Sopportava con il marito gli attacchi della stampa filo regime, si districava nell’incerta posizione burocratica che ufficialmente le riconosceva il governo: turista, moglie di un addetto commerciale, madre di un bambino che non aveva diritto alla scorta eppure andava a scuola tutti i giorni, ospite temporanea di un Paese in ostaggio dei militari, ma in realtà ambasciatrice anch’essa, senza rinunciare mai all’eleganza, ad un sorriso per i collaboratori, ad una zampata per i nemici di suo marito.

Neppure quando un misterioso incidente di macchina ha rischiato di ucciderla insieme alla sua famiglia, la signora Anna Sofia ha perso la sua forza di volontà.
"Tomaso faceva dire a me quello che lui non poteva dire. Avevamo un’intesa di sguardi. Quando superavo il limite, così come il mio carattere a volte mi porta a fare, lui mi frenava con un’occhiata appena percettibile". Quel che non poteva dire, de Vergottini comunque fece. Permise a 850 perseguitati politici e 400 loro familiari di scavalcare il cancello dell’Ambasciata ottenendo per essi prima la salvezza immediata dagli squadroni della DINA, l’organizzazione repressiva del regime, poi quella futura strappando con un equilibristico gioco diplomatico i salvacondotti umanitari per rifugiarli nel nostro Paese o in altri solidali come Cuba, la Romania, il Venezuela, la Svezia e la Gran Bretagna. 1.250 persone si sono salvate dalle esecuzioni di massa e dalle torure grazie a lui a ad i suoi collaboratori.

"L’Ambasciata italiana diventò un luogo di asilo e di libertà: molte volte i militari cercarono di entrare per catturare coloro che volevano consegnare alla giustizia, ma De Vergottini non ha mai permesso che uno solo di loro fosse toccato", ha detto il deputato cileno Antonio Leal, che fu tra i rifugiati della nostra sede diplomatica. "Perfino quando erano trasportati verso l'aeroporto per essere espulsi, li accompagnava personalmente, per proteggerli e controllare che davvero venissero fatti salire sull'aereo". Solo quando nottetempo gettarono il cadavere di una donna dentro i giardini dell’Ambasciata, De Vergottini fu costretto ad aprire i cancelli ai militari e ad affrontare insieme ai suoi collaboratori una delle crisi più difficili del lungo periodo della dittatura. Ma nessuno, anche in quel caso, venne strappato dalle sue mani.

I suoi funerali si sono svolti martedì 27 maggio a Montevideo. Centinia le testimonianze di affetto e cordoglio arrivate alla famiglia da ogni parte del mondo per la scomparsa di un uomo che non fece mai clamore del suo coraggio. In Uruguay in particolare, ha lasciato un ricordo pieno di ammirazione e di affetto. Qui è stato artefice, oltre che testimone, di una vivacissima vita diplomatica. Con la fine della dittatura nel 1985, grazie anche alla sua amicizia personale con Enrique Iglesias e con il primo presidente eletto democraticamente Julio Maria Sanguinetti, l’Italia e la Repubblica Orientale si avvicinarono quanto mai prima. Pertini, Craxi, Andreotti furono solo alcuni degli uomini politici venuti in visita a Montevideo ad incontrare il nuovo governo. La prima richiesta fatta dal neo Ambasciatore in Uruguay fu la liberazione di Liber Seregni, il fondatore del partito del Frente Amplio, detenuto per anni dal governo golpista per la sua opposizione politica.

A Montevideo vive suo figlio Antonugo con la moglie Dania e la piccola Isabella Sofia. Una bambina che ancora deve compiere un anno e che dopo le medaglie, Gran Croce dell’Ordine del Cile Bernardo O’Higgins nel 1990, la Croce dell’Apostolo Santiago nel 1983 e il Premio per i Diritti Umani nel 1989, dopo i ricordi di una vita come la sua, era l’ultima grande soddisfazione. Per restare con la nipote l’Ambasciatore de Vergottini si è trattenuto più del tempo nel Paese. Le sue ceneri raggiungeranno l’Italia entro la fine del mese. Soffriva da anni di una grave malattia". (aise)

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