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Accordo militare tra Croazia e Serbia (Europa 09 giu)

Una ventina d’anni fa Serbia e Croazia si facevano la guerra, puntandosi i cannoni contro. Adesso siglano accordi in chiave militare. La notizia è di ieri. I ministri della difesa di Zagabria e Belgrado, Branko Vukelic e Dragan Sutanovac, hanno firmato nella capitale croata un’intesa votata a rafforzare la cooperazione tra le forze armate dei due paesi.

In prospettiva c’è anche la possibilità di un gemellaggio a livello di industria militare. Come ha spiegato Vukelic, i rispettivi comparti sono «abbastanza complementari » e questo potrebbe permettere a Serbia e Croazia di «presentarsi insieme sui mercati esteri». Dove tra l’altro Belgrado s’è ritagliata un certo peso e punta quest’anno a tagliare l’ambizioso traguardo – così Sutanovac – del miliardo di dollari in export militare.

Il patto serbo-croato ha un notevolissimo valore politico. Costituisce, infatti, l’ennesimo passo messo in fila da Zagabria e Belgrado sul sentiero del dialogo e della riconciliazione. A partire da un paio d’anni, le due più influenti ex repubbliche jugoslave hanno infatti impostato una “manovra d’avvicinamento” finalizzata a rimuovere il macigno della guerra e a sostituirlo col pilastro del buon vicinato. Del resto, la convinzione che s’è fatta strada, da ambo le parti, è che Serbia e Croazia siano troppo piccole per giocare a fare le grandi e che conseguentemente ragionare insieme convenga sia economicamente che politicamente, specie in chiave d’integrazione nell’Ue.

Certo, permangono differenze nell’analisi del passato e resta, sullo sfondo, una rivalità dura a morire. Però qualche frutto è stato già raccolto e l’accordo sancito ieri ne è una dimostrazione. Presto potrebbe poi giungere la consacrazione solenne del nuovo clima, col ritiro della denuncia con cui Serbia e Croazia si sono citate a vicenda, per crimini di guerra e genocidio, alla Corte internazionale di giustizia. I bene informati dicono che è questione di settimane, al massimo di mesi.

L’esempio serbo-croato, tuttavia, non è un caso isolato nel contesto dei Balcani occidentali (l’ex Jugoslavia più l’Albania). Recentemente Slovenia e Croazia hanno sbloccato la vertenza di confine sul golfo di Pirano, che a lungo ha avvelenato i rapporti bilaterali, affidandone di comune accordo la soluzione all’arbitrato internazionale. La scelta è stata poi ratificata, in Slovenia, dal corpo elettorale, invitato domenica scorsa a pronunciarsi in merito. Sempre recentemente, su iniziativa del presidente Boris Tadic, il parlamento serbo ha licenziato una risoluzione in cui si condanna il massacro di Srebrenica. Senza definirlo “genocidio”, vero. Ma è comunque un progresso, rispetto al negazionismo che ha tenuto banco fino a ieri.

Gli esempi di concordia non si fermano qui. Belgrado e Tirana, qualche mese fa, hanno firmato una serie di accordi di cooperazione, spezzando il reciproco disinteresse che aveva sempre contraddistinto l’approccio dell’una all’altra e dell’altra all’una. Che dire, infine, della forza simbolica della riapertura, avvenuto lo scorso dicembre, della linea ferroviaria Belgrado-Sarajevo, chiusa nel ’91 allo scoppio del conflitto bosniaco?

L’impressione è nei Balcani, sulla scorta dell’impulso serbo-croato, si sta aprendo una stagione migliore. Certo, non tutti i conflitti verranno ricomposti (vedi alla voce Bosnia e Kosovo) e non tutti gli attriti levigati. Ma intanto il quadro è meno statico e come aveva annotato l’Economist con il solito acume, si sta assistendo alla (ri)nascita di una “Jugosfera”. Che non significa affatto rifare la Jugoslavia. Significa, piuttosto, tranciare l’ideologia delle piccole patrie, autarchiche e conflittuali, che ha dominato la scena in questo ventennio post-bellico.

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