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A Srebrenica nessuno fermò il massacro (Il Piccolo 11 nov)

di MARTA VERGINELLA

La memoria della guerra, quando non si canta le gesta patriottiche e l’eroismo dei soldati, è sempre imbarazzante e tragica. È fatta di sangue, di morte, di distruzioni spesso di violenze gratuite, saccheggiamenti, violazioni di corpi e di anime, ma soprattutto di vite perse per sempre, di esistenze lacerate, alcune fatte solo di ricordi o incapaci oramai di essere vissute. Alcuni segni bellici, lasciati nei luoghi e nelle persone, sono indelebili, altri tendono a scomparire, grazie anche a quella logica, sempre presente almeno in una parte dei sopravvissuti, che vuole lasciarsi alle spalle il peso del passato e aprirsi al futuro.

La memoria della guerra, quando non si canta le gesta patriottiche e l’eroismo dei soldati, è sempre imbarazzante e tragica. È fatta di sangue, di morte, di distruzioni spesso di violenze gratuite, saccheggiamenti, violazioni di corpi e di anime, ma soprattutto di vite perse per sempre, di esistenze lacerate, alcune fatte solo di ricordi o incapaci oramai di essere vissute. Alcuni segni bellici, lasciati nei luoghi e nelle persone, sono indelebili, altri tendono a scomparire, grazie anche a quella logica, sempre presente almeno in una parte dei sopravissuti, che vuole lasciarsi alle spalle il peso del passato e aprirsi al futuro.

Il più delle volte richieste di oblio e di memoria coesistono, come in effetti succede anche nella realtà ex jugoslava, pesantemente segnata dalla guerra. A volontà di pacificazione o di mera accettazione dello status quo raggiunto dopo la cessazione del conflitto si contrappongono richieste di giustizia e di punizione dei responsabili di crimini di guerra e contro l’umanità, e di giusto risarcimento morale e materiale nei confronti delle vittime. Spesso la necessità di ricordare coabita con il desiderio di dimenticare, il bisogno di capire, di ricostruire e di documentare la verità con la rimozione o con un sentimento disposto a dichiarare i «nostri», tutti indistintamente vittime e gli «altri» tutti indistintamente colpevoli. Si tratta di atteggiamenti, di reazioni tipiche in società che si avviano con difficoltà verso la pacificazione, che temono da una parte la rimozione della barbarie avvenuta durante la guerra, ma si preoccupano anche di un eventuale riaccendersi del conflitto, mal sopito e non del tutto eliminato.

D’altronde il timore che il tutto, le atrocità e l’enorme costo umano della guerra, passino sotto silenzio, non è condiviso soltanto da coloro che hanno subito le maggiori perdite, che sono stati colpiti dal conflitto nei loro affetti e nei loro beni, che hanno perso i propri cari, le loro case, i luoghi in cui hanno vissuto, ma anche da coloro che per ragioni istituzionali o umanitarie si adoperano per scongiurare tale eventualità. Nel caso dell’ex conflitto jugoslavo, va messo in rilievo anche l’impegno di numerosi artisti che hanno voluto dar testimonianza e diffondere conoscenza e consapevolezza su un conflitto, apertosi in terra europea che ha prodotto forme di violenze impensabili per più di mezzo secolo, soprattutto perché una guerra se dimenticata, rischia di essere ripetuta.

Marko Peljhan, originario di Nova Gorica, artista multimediale e professore associato di media interattivi all’Università di California a Santa Barbara, che con il suo istituto Projekt Atol si è proposto di raccogliere nell’ambito del progetto Territori 1995 documenti riguardanti i massacri avvenuti nel luglio del 1995 a Srebrenica, città bosniaca che allora si trovava sotto il controllo dei caschi blu olandesi. La ricostruzione degli eventi elaborata dai vari organismi internazionali, in particolare dal Tribunale dell’Aia, la cui documentazione l’artista, ambasciatore dell’Unione europea nel 2008 per il dialogo interculturale, ha potuto consultare e raccogliere, è riuscita solo in parte a soddisfare la richiesta di verità, lasciando molti vuoti e silenzi, che secondo Peljhan soltanto i sopravvissuti e le loro memorie possono colmare.

Per questi motivi è divenuta parte costitutiva del suo metarchivio anche la testimonianza di Hasan Nuhanovic, autore del libro «Under the UN Flag. The International Community and the Srebrenica Genocide», vissuto tra il 1992 e il 1995 nell’enclave di Srebrenica. Testimone oculare, e uno dei pochi superstiti della comunità bosniaco mussulmana rifugiatasi in quella località, si dedica da anni a raccogliere le testimonianze dei sopravissuti agli eccidi e a confrontarle con la documentazione raccolta da vari organismi internazionali, soprattutto nell’ambito del progetto Srebrenica Documentation and Information Centre, sostenuto da Dutch Interchurch Peace Council. Il suo obiettivo è compilare l’esatta cronologia delle violenze in cui scomparirono attorno a 8000 persone. Molti dei documenti pubblicati nel suo libro non compaiono ad esempio nei due rapporti prodotti dal Ministero per la difesa olandese del 1995 e nel rapporto delle Nazioni unite del 1999, anche perché toccano da vicino le responsabilità delle forze internazionali impegnate nella missione di pace, e in particolare le scelte fatte dai caschi blu olandesi.

Hasan Nuhanovic, dopo che si spostò con la sua famiglia, il padre Ibram, la madre Nasiha e il fratello Muhamed, originari di Vlasenica, a Srebrenica, località che dal 16 aprile del 1993 venne dichiarata zona protetta, posta sotto il controllo della Forza di protezione delle Nazioni Unite, fu uno dei pochi rifugiati a trovare impiego come interprete nella missione degli osservatori di guerra delle Nazioni unite. Questo incarico gli offrì una posizione privilegiata non soltanto dal punto di vista materiale, in quel periodo fu uno dei pochi abitanti di Srebrenica ad avere uno stipendio, ma di fatto, lo trasformò in testimone oculare, osservatore partecipe degli eventi. Egli riuscì a mettersi in salvo nel luglio del 1995 a seguito dei caschi blu, da «privilegiato» non poté, però, aiutare i propri familiari e salvarli dal massacro.

Le ragioni più profonde del suo grande sforzo documentale, ma anche della scelta di portare in giudizio il Regno di Olanda (che è stato reputato non colpevole con la recente sentenza del Tribunale dell’Aia del 10 settembre 2008) emergono forse ancora più chiaramente da un altro libro «Srebrenica. Ein Process. Dokumente und Materialien aus dem Un-Kriegverbrechtribunal in Den Haag», che raccoglie gli atti e i materiali prodotti dal Tribunale dell’Aia, ma anche singole testimonianze come quella di Emir Suljagic, anch'egli interprete dei caschi blu olandesi, oggi giornalista del settimanale di Sarajevo Dani. Quando nell’aprile del 1993, poco dopo che si diffuse la notizia che gli uomini di Potocari sparivano senza traccia, i due colleghi cercarono di mettere in salvo il fratello più giovane di Hasan, aggiungendo il suo nome all’elenco dei collaboratori locali che i caschi blu intendevano mettere in salvo. Il comandante del battaglione olandese prima di consegnare l’elenco agli ufficiali serbi controllò i nomi e cancellò con un pennarello fosforescente l’ultimo nome, quello appunto aggiunto dai due interpreti. Emir Suljagic ricorda che: «Sotto una riga breve, ma decisa si poteva intravedere il nome, scritto con una biro blu da pochi soldi, grande come un’intera vita. Una vita che non è stata ancora vissuta. Tutti gli altri dell’elenco sono sopravissuti. Da anni cerco di ricordarmi che occhi aveva il maggiore Franken, poiché in quegli occhi ho visto l’ultima volta la morte. L’ho vista già prima, ma mai così forte, così incurante e così inutile».

 

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