di Marco Scansani su La Gazzetta di Mantova del 30 gennaio 2011
Ha lasciato la sua città portando con sé due valigie e un armadio. Nient'altro. Dopo aver visto invasa la sua provincia, la madre schiaffeggiata e il suo vicino di casa picchiato e portato via. È la storia di Ennio Blasevich. Un italiano nato a Fiume nel 1936 e che nel 1945 (anno in cui la città passò sotto la bandiera Jugoslava) fu costretto a scegliere tra andarsene dalla propria città natale o smettere di essere italiano.
«Mi sono sentito profugo nella mia stessa patria», ci dice Blasevich. L'esule fiumano ha deciso di raccontare la sua storia alla Gazzetta: «Sono passati molti anni. Quando ho lasciato Fiume ne avevo dodici. Da allora non ho mai trovato un interlocutore interessato alla mia storia». Blasevich ha preso coraggio nel 2006 quando il presidente della Repubblica Ciampi istituì il 10 febbraio la Giornata in memoria delle vittime delle foibe e dell'esodo istriano. «Quando un po' di gente iniziò a interessarsi a ciò che accadde a Fiume dal 1945, pensai che forse avrei dovuto parlare, magari scrivere un libro. Ma poi mi sono sempre fermato, talvolta ho pensato che perfino le mie due figlie non avrebbero raccontato ai nipoti la mia storia. Temevo che la gente non la trovasse interessante».
Eppure Blasevich è stato protagonista di quella che fu una vera e propria diaspora, che in molti casi si trasformò in pulizia etnica. «Nell'anno in cui terminò la guerra, la mia città diventò jugoslava. Il nuovo governo guidato da Tito offrì ai miei genitori due possibilità. Potevamo rimanere nella nostra città, ma non saremmo stati più italiani. Oppure potevamo andarcene tornando nella nostra patria. Mio padre rifiutò di tradire la sua nazione. Migliaia di fiumani decisero di andarsene, alcuni addirittura in Australia e in Canada. Ma il documento per lasciare la città arrivò solo nel 1948. In quei tre anni la situazione fu pesante, mia mamma in fila in un negozio fu schiaffeggiata. Il vicino di casa e collega di mio papà, il signor Fattoretti, fu trascinato giù dalle scale dai soldati jugoslavi. Da quel giorno non l'ho più rivisto. Non so se sia stato infoibato. Ma allora bastava essere sospettati di simpatizzare per il fascismo per essere catturati e fatti sparire negli inghiottitoi carsici».
La famiglia Blasevich abbandonò la casa in un giorno di pioggia, ci spiega Ennio che ricorda perfettamente. Furono portati prima a Trieste, dove per le scarse condizioni igieniche presero pulci e pidocchi, poi a Udine dove dovettero scegliere se raggiungere il campo profughi di Mantova o Ascoli Piceno. «Mio padre optò per Mantova, pensavamo che al nord ci saremmo trovati meglio. Poi se ne pentì. Per noi che venivamo da una città sul mare vivere nella capitale della nebbia fu traumatico. Siamo rimasti diversi anni nel campo profughi che era allestito a Dosso del Corso dove c'è la caserma del Quarto Missili. Arrivati a Mantova ci siamo dovuti adattare, mio padre che a Fiume lavorava in un cantiere navale, finì col fare il facchino».
Ennio si commuove ammettendo: «Non mi immalinconisco per la mia storia, ma mi commuovo nel parlare di mio padre. Fu davvero coraggioso. Rischiò molto per difendere la sua nazionalità». Anche Ennio dopo la terza media ha iniziato a lavorare. Poi ha sposato una mantovana, la signora Giannina Cappellini. Ennio ha sempre taciuto la sua storia, ma di certo non ha perso la memoria e l'attaccamento alla sua città d'origine.
Nel 1986 è tornato con sua moglie a Fiume. «Mi veniva da urlare e da piangere. Non era più la città in cui nacqui. L'ho trovata sporca e degradata. Ho ricordato quei giorni del 1945 quando i soldati jugoslavi entrarono come barbari nella mia città. Erano violenti. Ho ritrovato casa mia. Il portone era scrostato ed era rimasto ben poco del bel condominio che ricordavo. Lì mi sono sentito poco bene. E ho deciso di tornare a Mantova».
(Ennio Blasevich, Esule da Fiume)