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30 apr – Toth: il confine orientale dalla guerra agli anni duemila

IL NORD-EST DALLA MUTILAZIONE DEL CONFINE ORIENTALE FINO AGLI ANNI 2000

(Intervento del presidente Lucio Toth al Raduno ANVGD del Veneto del 27 febbraio 2010 a Villa Cordellina di Montecchio Maggiore)

IL RITARDO DELLA CULTURA POLITICA ITALIANA

L’amputazione della vicenda del confine orientale italiano alla fine della seconda guerra mondiale dalla memoria storica della nazione è il segno di un ritardo culturale dell’intero paese e della sua evoluzione politica, dal Risorgimento alla democrazia moderna.

La sottovalutazione del rilievo delle regioni nord-orientali nella politica interna ed estera del paese, e quindi nel suo ruolo internazionale, ha portato a danni politici di importanza decisiva, come – solo per fare un esempio – la nascita e il successo del movimento fascista dopo la miope respressione dell’esperienza dannunziana a Fiume, camuffata da una «fermezza» dello Stato che non esisteva nella realtà. Come si dimostrò il 28 ottobre del 1922.

Ed è sintomatico che da questo sonno della ragione, durato dal 1954 (ritorno all’Italia della sola Zona A, sostanzialmente della città di Trieste) ci si sia risvegliati solo nel 1996, in coincidenza con la prima vittoria elettorale della sinistra ex-comunista, paradossalmente a sette anni dalla caduta del Muro di Berlino. E l’evento che segnò la svolta fu l’incontro Violante-Fini di Trieste, voluto dai DS triestini per scrollarsi di dosso un fardello portato per decenni e guardare al passato con un giudizio lucido e severo.

Inscrivere le vicende delle Foibe nella Venezia Giulia e del successivo esodo di oltre 300.000 italiani dalle loro sedi di insediamento storico come capitolo finale della parabola fascista rappresentava infatti un’interpretazione forzata e sviante dell’intero dramma della Venezia Giulia.

Non perchè il fascismo non avesse le sue pesanti responsabilità nella perdita di queste province – a cominciare da una guerra cominciata senza la preparazione necessaria ad un conflitto di tali proporzioni e con un alleato assai più infido di noi e ispirato da un’ideologia totalitaria ben più radicale dei fascismi latini – ma perchè non ne costituisce l’unica esauriente spiegazione. Dare agli eventi una spiegazione parziale, dimenticandone gli altri fattori causali, significa in definitiva sviare e mentire.

Secondo l’interpretazione prevalente della storiografia italiana del Novecento, nella cultura della sinistra, non solo il ventennio fascista rappresenta una «parentesi» interuttiva dello sviluppo democratco-liberale del paese, seguendo la definizione crociana, ma anche il cinquantennio democristiano 1946-1994 sarebbe un’altra lunga paralisi nel progresso civile della società italiana.

In questo modo praticamente la storia si sarebbe fermata dal 1921, nascita del PCI al congresso di Livorno, al 1996, vittoria dei DS, alleati con i cattolici di sinistra; o comunque al 1994, con la prima, spaventevole, vittoria di Berlusconi e la fine ignominiosa della Prima Repubblica, travolta da quella «questione morale» che profeticamente Berlinguer aveva individuato come chiave di volta del cambiamento democratico e della sostanza antropologica del PCI.

Come se la tenace dipendenza dal PCUS, durata economicamente e anche ideologicamente fino al 1989, non avesse niente a che vedere con una «questione morale», che non riguardava solo il finanziamento del partito, ma la stessa lealtà verso le istituzioni repubblicane, che legittimamente avevano fatto una scelta con l’adesione alla NATO.

In qualche modo è vero che per effetto della Guerra Fredda e dello scontro bipolare USA-URSS il cinquantennio democristiano e il centro-sinistra filo-occidentale degli anni 1960-1980 avesse steso sull’Italia una specie di cortina di bambagia insonorizzante, che attutisse i rumori pericolosi e tenesse a bada, in un modo o nell’altro, le spinte eversive ed anti-sistema.  E che finiva così per ritardare e ostacolare un normale deflusso della storia, quale si veniva svolgendo nelle democrazie occidentali più avanzate.

Questa coltre di bambagia consigliava di tenere nascosti argomenti ingombranti che avrebbero aperto diatribe e scontri ideologici, di cui non si avvertiva certamente il bisogno, visto che già di carne al fuoco ce n’era di troppa. Anche le Foibe e l’esodo di 350.000 italiani, in gran parte autoctoni, era argomento da evitare perchè infrangeva la falsa immagine di un’Italia uscita dal II conflitto mondiale quasi vergine e vincitrice.

Di questa mancata elaborazione del passato nazionale la vicenda del confine orientale era infatti parte essenziale, come lo era il silenzio sul carattere anche di «guerra civile» assunto dalla Resistenza e dalla guerra di Liberazione.

Secondo la visione della cultura egemone della sinistra filo-comunista – che la DC lasciava prosperare nell’illusione, peraltro confortata dai successi elettorali, che la conservazione del potere valesse di più della formazione delle coscienze – il tunnel della libertà non era finito nel nostro paese il 25 aprile del 1945 o il 2 giugno del 1946, con la vittoria referendaria della Repubblica, ma era proseguito durante il dominio democristiano e dei partiti centristi (PLI, PRI, PSDI) e poi del PSI, specie dopo la svolta craxiana del Midas del 1976.

Soltanto «Mani pulite» – secondo questa visione – era riuscita a scoperchiare un’egemonia immeritata, svelando la «Notte della Repubblica» e in definitiva le trame dei patri governi e dei servizi segreti americani, che avevano tenuto sotto controllo la vita politica italiana.

La vicenda parlamentare dell’inchiesta su «Gladio» è esemplare di questa interpretazione e soltanto l’onestà e la lucidità della magistratura romana dell’epoca (Procura e GIP) pose fine ad una speculazione impropria, e sotto molti profili vergognosa.

La vicenda di Gladio ci avvicina al Nord-Est di cui parliamo, alle sue inquietudini eversive, alle sue pulsioni di violenza rivoluzionaria e contro-rivoluzionaria.

Per questa via però non ci si avvede che si sta negando alla società italiana la sua capacità di sviluppo spontaneo, come se gran parte del Novecento italiano non fosse che un lungo spazio bianco di sospensione della storia.

Le interpretazioni diverse sul ventennio fascista – come quella di Renzo De Felice che dimostrava come al di sotto delle strutture dittatoriali del regime la società italiana si fosse mossa in qualche modo sia sul piano economico che sociale e culturale – venivano respinte come revisioniste perché contraddicevano le tesi del vuoto totale rappresentato dal Ventennio.

Come veniva respinto il riconoscimento dei meriti del governo democristiano e dei governi centristi e di centro-sinistra, di aver tirato fuori l’Italia dal disastro post-bellico e di averla inserita tra i paesi progrediti dell’Occidente, fino all’entrata nel G5. Operazione indubbiamente riuscita, malgrado lo stato di subordinazione del paese sul piano internazionale, di cui la stessa vicenda del confine orientale costituiva una prova incontestabile, come la firma improvvisa e imposta del trattato di Osimo nel novembre 1975, con l’intento di salvare il prestigio declinante del maresciallo Tito, pedina di gran conto negli equilibri internazionali.

Subordinazione che i giri di valzer della politica fanfaniana prima e andreottiana poi con i paesi arabi e islamici moderati e con la stessa OLP non facevano che confermare, come variabili consentite all’interno dell’Alleanza Atlantica ad un alleato che doveva sopravvivere nel Mediterraneo e assicurarsi comunque il suo approvigionamento energetico, anche scavalcando abilmente con l’ENI le concorrenti anglo-americane. Ai momenti di tensione succedevano lunghi periodi di compromesso.

Anche l’episodio della «Achille Lauro» e di Sigonella nel 1985 fu un’impennata di orgoglio nazionale –  del tipo di quella di Giuseppe Pella dell’estate 1953 – che si sanò rapidamente, per la tolleranza di Reagan che mise a tacere le proteste della CIA, riconoscendo il grande merito del Governo Craxi verso la causa dell’Occidente, con l’installazione dei missili Cruise in Sicilia, che fu fattore essenziale del contenimento dell’URSS e del suo finale cedimento. Nè possiamo dimenticare le ripetute marce pacifiste di tutta la sinistra, che proprio questo contenimento e questo esito volevano evitare.

IL '68 E GLI "ANNI DI PIOMBO"

Nè vi fu in Italia un’adeguata valutazione del 68, fenomeno sopravvenuto dall’esterno che investì un’intera generazione e che era il frutto di una evoluzione del pensiero filosofico occidentale, maturata negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna, i paesi culturalmente e democraticamente più avanzati. Non è un giudizio di merito, ma una constatazione come saturazione del pensiero marxista da un lato e dell’esistenzialismo dall’altro.

In Italia proprio la perdurante egemonia dell’ideologia marxista non consentì di avvertire pienamente la portata del fenomeno, che coinvolgeva in un’ondata di rigetto generazionale l’intera tradizione di pensiero occidentale. E quindi anche le ideologie dell’Ottocento, che avevano dominato la prima metà del XX secolo.

I pochi intellettuali che, come Pier Paolo Pasolini (uomo del Nord-Est), se ne avvidero, pesandone la portata devastante, del tutto consentanea all’economicismo capitalista che stava trionfando, non furono ascoltati.

D’altro lato l’interpretazione tutta negativa dell’evoluzione del capitalismo non permise a gran parte della sinistra e dello stesso sindacato – che per la sua vicinanza con i ceti rappresentati avrebbe dovuto avere sensori più vigili – di comprendere il profondo cambiamento della stratificazione sociale, con il conseguente formarsi di nuovi ceti di piccola e media borghesia, costituita sempre più da quadri intermedi specializzati e da lavoratori autonomi che si trasformavano in piccoli e medi imprenditori. Restare attaccati ad una concezione del proletariato operaio come forza trainante del movimento politico della sinistra portò gradualmente i ceti dirigenti ad un distacco progressivo dalla realtà della società italiana.

I primi a soffrirne furono proprio i quadri sindacali, stretti tra una tendenza riformista dei nuovi ceti operai e la pulsione rivoluzionaria di ristrette minoranze che, temendo l’imborghesimento della classe operaia, volevano arrestare questa che per loro era una pericolosa involuzione, il tradimento definitivo della «Rivoluzione mancata» del 1945.

L’utopia di un inveramento della rivoluzione proletaria negli anni Settanta portò in Italia alla lunga stagione degli Anni di piombo, ostacolando l’evoluzione naturale del processo seguito agli «autunni caldi» ed all’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori del 1970, punto d’incontro del riformismo cattolico, socialista e comunista.

E’ significativo che queste minoranze rivoluzionarie, avviate sulla strada di una criminalità politica esaltata e autoreferenziale, siano state ben presto isolate dalla base operaia delle regioni italiane più avanzate e abbiano potuto proliferare negli ambienti studenteschi e impiegatizi di estrazione medio-alta borghese, anche della sinistra cattolica.

Dal piano culturale la «contestazione» prese in Italia un aspetto di militanza politica aggressiva e violenta, sia all’estrema destra che all’estrema sinistra dello schieramento politico. Esempio unico in Occidente, di cui si devono cercare le cause proprio nel ritardo culturale del PCI e soprattutto delle aggregazioni elettorali che si aprivano alla sua sinistra, dalle quali non sapeva prendere le distanze.

La maturazione democratica interna al PCI, malgrado lo slancio di Enrico Berlinguer e dei riformisti più aperti al riconoscimento della inevitabile superiorità storica del modello democratico occidentale, fu troppo lenta per avvertire e frenare in tempo le spinte disgregatrici del movimento operaio.

Quando il PCI adottò la «linea della femezza», superando il principio nicodemico «Nè con le BR nè con lo Stato», era troppo tardi e il danno alla società italiana e all’immagine stessa della nostra sinistra era già stato fatto. L’epilogo del rapimento di Aldo Moro seppellì i conati rivoluzionari, ma rappresentò anche una frattura insanabile all’interno della DC e tra il riformismo socialista e quello comunista.

Il compromesso storico sembrò realizzarsi nella linea della fermezza. In realtà fu proprio lì che si arenò. Si era rotto un meccanismo psicologico che teneva unita la base dei partiti ai loro vertici. La disumanità dell’esito, presentata come una prova di forza, fu vissuta dagli italiani come un segno di impotenza della politica. Ne uscirono sconfitti tanto lo Stato che le BR.

IL NORD-EST NEGLI ANNI SETTANTA

Di questa evoluzione dello sviluppo politico, economico e sociale italiano il Nord-Est è il paradigma più significativo.

Il distacco della base popolare dai vertici dei partiti e dai loro riti congressuali, dominati dalla conta delle tessere comprate sul mercato del sottogoverno, portò a una disaffezione dalla politica ufficiale di larghi strati di popolazione, prima devoti ai leader regionali e alle loro clientele, che cominciarono a preferire forme localistiche di appartenenza antipolitica, che intendevano rappresentare istanze genuine e spontanee del territorio, stanco di interpretazioni ideologiche omologanti piovute dall’alto delle segreterie.

Uno dei primi fenomeni di localismo autonomista fu – guarda caso – la «Lista per Trieste» che vinse le elezioni amministrative in una città altamente ideologizzata, come reazione popolare al trattato di Osimo, vissuto come un’imposizione dall’alto da parte di chi non conosceva i problemi reali del territorio e della sua gente, incastrata da vent’anni nell’imbuto del mancato Territorio Libero, un moncone d’Italia indifendibile militarmente ed economicamente asfittico.

Alla delusione dell’opinione pubblica di centro-destra per il cedimento alle pressioni iugoslave si accompagnava l’irritazione per il progetto di una zona franca sul Carso che avrebbe alterato e sconvolto equilibri etnici e ambientali, come se non bastasse nella sedimentazione  psicologica  popolare la ferita dell’amputazione del trattato di pace. Si formò così un consenso trasversale alle convinzioni politiche e anche alle divisioni linguistiche, che Roma non capì – come al solito – e la cultura politica nazionale respinse come localismo nostalgico della Mitteleuropa asburgica.

Se il trattato di Osimo ha avuto effetti positivi non sono quelli perseguiti dai firmatari e dai loro ispiratori interessati, ma quelli prodotti dalle reazioni contrarie. Si dimostrò che la gente poteva avere idee proprie e non obbediva più agli ordini di scuderia dei partiti di Roma.

Quella trasformazione sociale descritta più sopra, in atto negli anni Settanta in tutto il paese, assunse nel Nord-Est la sua connotazione più chiara e decisa, una vera e propria mutazione genetica dell’assetto produttivo.

Certo il Nord-Est è tutt’altro che un’area omogenea sul piano economico. Il dinamismo della Marca Trevigiana, di quella Veronese o del Friuli centro-occidentale, non ha riscontro nella piccola e sacrificata Venezia Giulia rimasta all’Italia. Così come l’autonomismo delle due province trentino-tirolesi disegna scenari assai diversi da quelli della Bassa polesana o delle valli cadorine.

Ma esistono tratti comuni sul piano della mentalità, della stratificazione sociale, della richiesta di efficenza e di ordine. Non per niente i capoluoghi del Nord-Est sono sempre tra i primi nelle varie classifiche sullo stardard di vita, di scolarizzazione, ecc. Senza indulgere ovviamente a retoriche regionaliste.

Perchè vi sono anche problemi negativi comuni all’area, come la proliferazione negli anni di piombo di organizzazioni eversive di destra e di sinistra, di cui sono rimasti strascichi anche attuali nei cosiddetti «Non violenti» e nei No-global, che nel Nord-Est arruolano i fans più attivi e rumorosi. Fenomeni di violenza endemica che si ripropongono con frequenze non casuali e che qualche ragione locale devono averla.

Ma è proprio nel Nord-Est che si è sviluppata, più o meno dopo la grande prova di efficenza del dopo-terremoto del Friuli, una autentica rivoluzione del tessuto produttivo, con la nascita e lo sviluppo di piccole e medie imprese che si sono imposte sulla scena internazionale, divenendo trainanti del Made in Italy.

Tre regioni trascurate per oltre un secolo, dal 1859 al 1975, dalla politica economica del paese, sono diventate nel giro di trent’anni la locomotiva dell’export italiano.

Molto si è parlato, fin dalla nascita dello Stato unitario, di una «questione meridionale», giustamente posta come problema nazionale da quegli stessi ambienti liberali meridionali che avevano lottato per l’unificazione del paese.

Poco si è parlato invece del problema delle regioni nordorientali. Rotto con l’unificazione italiana l’equilibrio che aveva consentito una certa collaborazione economica e culturale tra i territori della Repubblica Veneta (Veneto, Lombardia orientale, Friuli, Istria e Dalmazia) e i Territori Ereditari austriaci (Trentino, Tirolo, Trieste, Fiume, Carniola e  Contea di Gorizia e di Pisino), mantenuto nell’età napoleonica e proseguito con la restaurazione del 1815, che aveva conservato rapporti assai stretti tra il Regno Lomdardo-Veneto, il Litorale austriaco, il Tirolo meridionale e la Dalmazia, dopo la vittoria franco-piemontese del 1859 tutte le Tre Venezie divennero per l’Austria una terra di frontiera che si doveva soltanto difendere come antemurale dell’impero transalpino.

La perdita di Veneto e Friuli nel 1866 confermò questa valutazione. Trieste e Fiume dovevano essere mantenute e potenziate nella loro vocazione portuale di sbocchi della monarchia verso il Mediterraneo e l’Oriente. Ma il resto poteva essere lasciato nell’abbandono, curando solo le difese territoriali da una sempre possibile minaccia italiana, malgrado la Triplice del 1882.

Dall’altra parte anche l’Italia considerò Veneto e Friuli come territori marginali di confine cui non attribuire eccessiva importanza. Tutto lo sviluppo dell’Italia unitaria dopo il 1866 puntò sul Triangolo industriale Torino-Milano-Genova, dove erano concentrate le uniche industrie pesanti del paese e i capitali finanziari disponibili.

Lo stesso sviluppo delle comunicazioni stradali e ferroviarie fu sacrificato alle esigenze militari, così da non consentire ad un eventuale invasore da est di dilagare rapidamente nella pianura padano-veneta. Tanto ci si fidava uno dell’altro all’interno della Triplice!

In definitiva dal 1866 al 1915 il nord-Est fu una plaga abbandonata da entrambi gli Stati confinanti: terreni buoni per manovre militari, caserme, fortificazioni; bacino di reclutamento di soldati e di servette per le città dei due grandi Stati. Nè più nè meno della Ciociaria, dell’Abruzzo o della Lucania.

I flussi di emigrazione da questi territori, al di qua e al di là della frontiera austro-italiana, furono altissimi tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento: veneti, friuliani, trentini, carniolini, istriani, riempirono treni e bastimenti, abbandonando un’economia di sostentamento.

Soltanto durante il ventennio fascista, dopo un aggravamento iniziale delle condizioni economiche e sociali nei primi anni Venti – dovuto alle distruzioni della guerra e alla perdita per la Venezia Giulia dei mercati centro-europei – la politica di autarchia e l’ambizione di conservare consenso tra le popolazioni sia di lingua italiana che alloglotte, portò all’istituzione dei punti franchi a Fiume e a Zara, allo sviluppo delle centrali idroelettriche sull’arco alpino e delle industrie belliche nei cantieri e nelle fabbriche di Monfalcone, Trieste e Fiume, alle raffinerie lungo le coste (Marghera, Monfalcone, Zaule). Si restituì così alle regioni del Triveneto un minimo di benessere, pur conservando la loro struttura  prevalentemente agricola.

Recenti studi stanno dimostrando come nel complesso tutta l’economia del Triveneto fu subordinata agli interessi del Nord-Ovest, che detenevano il monopolio del potere finanziario e industriale. E questa situazione si protrasse immutata dopo il 1945, costringendo all’emigrazione altre masse di italiani, sia verso Torino e Milano, sia verso la Germania, la Francia, il Belgio e oltreoceano. Insieme ai profughi giuliano-dalmati di cui non si sapeva che fare, per i troppi che erano.

L’amputazione del confine e l’esistenza a ridosso di esso di un paese ad economia comunista, e come tale fuori gioco rispetto alle economie di mercato dell’Europa occidentale, non fece che aggravare ulteriormente il ritardo del Nord-Est.

LA FINE DEL BLOCCO SOVIETICO E LA DISSOLUZIONE DELLA IUGOSLAVIA

Da questa condizione di marginalità il Nord-Est si è riscattato da solo nel periodo  compreso tra il terremoto del Friuli e la caduta del Muro di Berlino, con un minimo di assistenzialismo di stato nei lembi più orientali dell’Isontino.

Risveglio provvidenziale che consentì all’intera regione di cogliere subito l’occasione propizia dell’apertura dei mercati dell’Est europeo, dopo la scomparsa dei regimi comunisti.

A questa mutazione economica e sociale, con la nascita di un’imprenditoria di origine operaia e di lavoratori autonomi, non poteva non corrispondere a cavallo degli anni Novanta un fenomeno politico nuovo: le Leghe, poi confluite nella Lega Nord.

E di un analogo blocco sociale si fece interprete, dopo il crollo della DC e del PSI, Forza Italia, capace di convogliare la voglia di sviluppo della maggioranza degli operatori economici, stanchi di alimentare con il loro prelievo fiscale le sovvenzioni statali alle clientele del Sud.

Fenomeni tutti che scandalizzarono i benpensanti delle classi dirigenti nazionali, che si vedevano privati di un comodo bacino di lavoratori a basso costo. E scattarono le accuse di egoismo antisolidale, di attaccamento esclusivo all’utile d’impresa, di razzismo e quant’altro. Fino all’accusa estrema di secessionismo.

Spauracchio che per la verità molti leghisti agitarono, specie nelle province venete, generando scissioni interne e accuse di tradimento della causa comune della Padania, creatura inventata e obiettivamente inestistente sul piano storico, culturale e della tradizione politica, ma che serviva per inventare miti di nuove identità, tanto fasulle nella sostanza, quanto alimentate da un senso oggettivo e giustificato di frustrazione e di sfruttamento delle risorse prodotte sul territorio.

Dopo la dissoluzione della ex-Iugoslavia nel 1990-1991 non pochi osservatori ansiosi paventarono per l’Italia una sorte non dissimile. Pur sapendo tutti, agitatori senza scrupoli e cassandre allarmate, che lo stato iugoslavo era cosa ben diversa dallo stato italiano.

Ma il processo di sfaldamento, iniziato con la riforma federalista di Tito nel 1974, non poteva non mettere paura a chi ne vedeva le analogie sul piano economico, sociologico e giuridico. E considera sovrastrutture i fattori linguistici, letterari, culturali, religiosi, che dovrebbero dare all’Italia una ben diversa coesione.

Sarà il federalismo fiscale un rinnovamento dello stato nazionale – come afferma e spera il nostro Presidente della Repubblica – o non sarà piuttosto l’inizio di un processo centrifugo di distacco progressivo, alimentato da interessate influenze straniere ?

Qualche analogia può risultare inquietante. Negli anni Settanta, più o meno dopo il ricordato trattato italo-iugoslavo di Osimo del novembre 1975 – insignificante e dimenticato dai più, ma caricato di valenze negative a Trieste e nella destra in generale – si sviluppò un processo di avvicinamento aggregativo sovranazionale tra regioni limitrofe a cavallo delle Alpi Orientali: l’Alpe-Adria, istituita nel 1978..

Raggruppò prima le regioni più a ridosso del nostro confine: Friuli Venezia Giulia, Veneto; le austriache Carinzia e Stiria; le iugoslave Slovenia e Croazia, all’epoca ancora repubbliche federate; alcune contee ungheresi. Poi si estese a Lombardia, Baviera, ecc. Non aveva nessun rilievo istituzionale, per la diversità dei sistemi politici e del quadro internazionale. Slovenia e Croazia avevano un regime socialista di stato, sia pure corretto dalla cosiddetta «autogestione». I länder austriaci appartenevano ad un paese neutrale, non ancora parte nè della NATO nè della Comunità Europea. L’autonomia di manovra delle regioni era quindi limitata.

Ma chi oggi guarda a quell’esperienza – che sembrava più chiacchere che fatti – non può non constatare che più o meno fu da allora che i rapporti economici e culturali tra le regioni dell’area si fecero progressivamente più intensi, accentuando la differenza di condizioni economiche e sociali tra le repubbliche iugoslave settentrionali, che di Alpe-Adria facevano parte, e le repubbliche più meridionali, che si attardavano nel ristagno statalista.

Anche il cosiddetto Nord-Est italiano cominciò proprio allora il suo cammino di sviluppo economico nel campo della piccola e media impresa, destinato a conquistare i mercati esteri e a diventare un singolare modello di economia capitalista avanzata, che si estese lungo la costa adriatica (Romagna, Marche, Abruzzo) e nelle vicine aree oltre-confine (Carniola, Istria, Dalmazia, Zagorije), non appena il crollo dei sistemi socialisti riavvicinò all’Adriatico i paesi della Mittel-Europa.

L’Italia si fece interprete della mutazione anticipando addirittura nel 1989 il crollo del Muro di Berlino e inventandosi prima la Quadrangolare (Austria, Italia, Iugoslavia, Ungheria) e poi la Esagonale nel 1991 (con Cecoslovacchia e Polonia), che fu battezzata come Iniziativa Centro Europea (INCE).

Ma la fantasia della nostra Ost-politik, interpretata all’epoca da Gianni De Michelis, era in realtà una giusta precauzione verso un ritorno dell’influenza economica della Germania unificata verso l’Adriatico e i Balcani. Influenza che diventò subito politica e fu determinante nella disgregazione della Iugoslavia. Helmut Kohl aveva una visione molto chiara dello spazio che la fine del comunismo apriva alla Germania Federale sia a est che a sud. La sua volontà fu decisiva sia per la riunificazione tedesca, che per  il riconoscimento dell’indipendenza slovena e croata. Precedette gli altri stati europei, vincendo ogni titubanza e battendo sul tempo le altre cancellerie occidentali

Nello stesso decennio 1980-1990 si registrò nel Nord-Italia lo sviluppo della Lega, che trovò in        Miglio il suo profeta.

E’ una coincidenza, naturalmente, senza alcuna possibilità di ricondurre il fenomeno a complotti stranieri di oltr’alpe. Si è trattato infatti di un moto spontaneo di sfiducia verso le istituzioni centrali italiane, percepite come ostili e ritardatrici dello sviluppo per la loro pesantezza burocratica e un interventismo statalista, fondato su formule superate, buone per gli anni Sessanta, ma non più praticabili in un’economia globale, governata sempre più da regole esterne, a cominciare dai trattati e dai regolamenti comunitari.

Sta di fatto che non pochi in Italia, che oggi sono anche alleati della Lega, allora se ne preoccuparono, prefigurando scenari di disgregazione balcanica.

L’Italia come nemica, con «Roma ladrona», divenne un leit-motiv odioso a gran parte dell’opinione pubblica benpensante, non solo al sud e al centro, ma anche al di là del Po, nelle grandi città del nord e nella borghesia intellettuale, che fosse di centro, di destra o di sinistra. Insomma un riflusso paesano di stampo vandeano e retrogrado.

GLI ANNU DUEMILA

Dopo il 2000 il fenomeno politico leghista si diffuse anche a sud del Po e dell’Appennino, sia pure in proporzioni ridotte, alimentando nostalgie anti-unitarie. Al revival asburgico del Nord-Est (anche in regioni che erano state austriache solo per mezzo secolo su mille anni di storia indipendente) corrisposero revival borbonici nel Mezzogiorno, granducali in Toscana, papalini nel Lazio. Fino a rimpiangere le feste popolari romane, quando un «giudeo» veniva rotolato giù in una botte dalla scalinata del Campidoglio.

E fioriscono, a un anno dalle celebrazioni del 150° anniversario dell’unificazione italiana, cioè della nascita di uno Stato unitario – che era nei sogni dei grandi italiani dai tempi dell’Alighieri e del Petrarca – le pubblicazioni che deridono Garibaldi come un pirata negriero, ignorante e donnaiolo, come il suo compare Vittorio Emnanule II, con il quale era «culo e camicia» malgrado fosse repubblicano.

Anche i «nostri» eroi Nazario Sauro e Fabio Filzi sono fuori moda, come Cesare Battisti, soppiantato nei miti giovanili dall’omonimo terrorista latitante in Brasile.

E il cerchio dell’incomprensione della storia nazionale si chiude proprio sull’amputazione della memoria delle vicende del confine orientale.

L’ignoranza di quanto avvenuto nei secoli in questo spezzone di Italia, dalla caduta dell’impero romano – di cui Aquileia, Padova e Verona erano i centri propulsori verso il Danubio e i Balcani – alla gloriosa storia di indipendenza e di fierezza della Serenissima («una Città, una Repubblica, un Impero» come la chiama Alvise Zorzi), ai sentimenti di italianità degli istriani, dei dalmati e dei fiumani negli anni del Risorgimento, fino al capitolo tragico delle Foibe e dell’Esodo, si rivela allora come un vuoto incolmabile, un anello mancante dell’identità nazionale, un vulnus  nel processo di formazione della Nazione stessa, della sua preziosa unità di lingua e di cultura,  della sua ritardata  e ancora immatura unificazione statale del 1861, alterata da un centralismo giacobino di  tipo franco-napoleonico, che contraddiceva  la vocazione federalista dei nostri liberi Comuni medievali e degli Stati regionali del Rinascimento, che erano stati il vivaio del moderno umanesimo europeo e occidentale.

Come Cattaneo, Rosmini, Gioberti e il nostro Tommaseo vaticinavano, forse una struttura federalista risponderà meglio ai bisogni e alle aspirazioni di una nazione moderna, come l’Italia dimostra di essere, più nei suoi ceti produttivi che nelle élites politiche e intellettuali.

Una canzone popolare fiumana di un secolo fa, sotto l’Austria-Ungheria, diceva nel ritornello: «Cantime Rita in italian». Perchè per noi, irredenti, da Gorizia a Spalato, a Ragusa, a Cattaro, il dialetto veneto dei padri era l’«italiano», il segno distintivo e orgoglioso della nostra cultura e civiltà. Come quel gondoliere veneziano del Settecento che al visitatore straniero rispondeva : « La me parli in italian !  »

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