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23feb12 – ”Famiglia Cristiana” intervista Anna Maria Mori

Insignita dall’Anvgd del Premio Giorno del Ricordo 2009, e recentemente ospite dell’Associazione al Salone Margherita in occasione dell’edizione 2012, la giornalista e scrittrice esule da Pola Anna Maria Mori è stata intervistata per il settimanale cattolico da Paolo Perazzolo. Oggetto dell’intervista, l’Istria dell’esodo e il nuovo libro della scrittrice, presentato in anteprima lo scorso 9 febbraio a cura dell’Anvgd nell’ambito della cerimonia di consegna dei premi Giorno del Ricordo.

 

 

Da tempo Anna Maria Mori è impegnata nel tentativo di suscitare una memoria condivisa e non ideologica su quel che accadde alla fine del secondo conflitto mondiale in quel complicatissimo territorio che è “il confine orientale”. Lo sforzo si è tradotto nei libri Bora del 1999, Nata in Istria del 2006, in alcuni documentari sulla sua terra d’origine e ora, in occasione della Giornata del ricordo, in un nuovo romanzo, L’anima altrove (Rizzoli). Un’indagine struggente e – come si vedrà – narrativamente originale che la giornalista e scrittrice, nata a Pola e poi esule, ha condotto sui temi dell’identità, dello sradicamento, dell’appartenenza, attraverso la vicenda di Irene, una donna non più giovane, “costretta” in un salto nel passato a incontrare, agli albori del Novecento, le vite di Natalia, Umberto e Renzo, su cui si era abbattuto il trauma dell’esodo forzato dall’Istria.

Come è nata la storia di Natalia, Umberto, Renzo e Irene?

 

«È il mio libro più sofferto, ci lavoravo da sei anni. Direi che nasce dall’idea della centralità della casa, del luogo dove ciascuno apre gli occhi sul mondo, sugli oggetti che sopravvivono alle persone e testimoniano storie».

Il libro si alimenta infatti di un singolare espediente letterio, per il quale sono le cose a farsi voce narrante…

 

«Parlano al posto delle persone, che non ci sono più o che la vita ha reso afasiche. Fra gli esuli, si incontrano quelli che straparlano e quelli che confessano: “Mio padre non me ne ha mai parlato”. Io appartengo alla seconda categoria: per anni non ho voluto fare i conti, ho serrato il passato in un angolo della coscienza. Va detto che la storia di quel territorio è complessa, nemmeno io riuscivo a decifrare ciò che avevo vissuto da bambina, perché un bambino non capisce e non accetta l’ingiustizia. Non ha risposte alla domanda “Perché ci odiano?”. Ci ho messo una vita per trovarle».

Al blocco psicologico personale contribuisce anche la mancata elaborazione di una memoria collettiva su queste vicende storiche?

 
«Certo. So che se dico che sono istriana, la maggior parte della gente pensa che sono fascista. È un pregiudizio duro da smantellare. Siamo passati tutti per fascisti, perché era più comodo pensare così, per slogan, che documentarsi e sforzarsi di capire. Eravamo una massa di fascisti e quindi, in fondo, pagavamo il giusto prezzo».

 

La coscienza storica ha fatto qualche passo o siamo fermi a quei pregiudizi?

 

«Il Paese ha cominciato ad aprire gli occhi, anche se sulle foibe più che sull’esodo, che pure ha riguardato 350 mila persone. Devo dire che, presentando i miei libri in tutta Italia, mi sono sempre trovata fra due fazioni: da una parte i fligli dei partigiani, che mi avrebbero presa a botte, dall’altra una destra che rivendicava meriti che non ha… A tutti ricordo le specifiche responsabilità».

Nel suo romanzo descrive il senso di sradicamento, di non appartenza che investe chi ha dovuto lasciare la terra nativa…

 
«Personalmente, sento ad esempio la distanza dalle architetture e faccio fatica ad ambientarmi: il barocco di Roma, dove vivo, è splendido, ma non mi appartiene. Il senso di appartenenza va di pari passo con il senso di sicurezza, che solo il luogo dove si è nati e cresciuti può regalare. Mi colpisce, ogni volta che torno là, sentir parlare una lingua che non è quella che parlavo da bambina. Allora provo uno straniamento incredibile».

 

Paolo Perazzolo

 

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