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22apr/09.55 – Come Marco Polo diventa esploratore croato

di Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera del 22 aprile 2011

L’ex presidente croato Stjepan Mesic, scrive l’agenzia Hina, «ha inaugurato il museo dedicato a Marko Polo nella città cinese di Yangzhou». «Marko» Polo? Con la «k»? Esatto. Mesic ha anzi ricordato solennemente quel «viaggiatore del mondo nato in Croazia che ha aperto la Cina all’Europa». I cinesi, pare, hanno applaudito. Prova provata che le nostre autorità non sanno fare il loro mestiere: è mai possibile farsi scippare Marco Polo? La leggenda della «croatità» del grande commerciante e navigatore veneziano non è nuovissima. Qualcuno, secondo Alvise Zorzi che sulla città lagunare ha scritto un mucchio di libri dei quali uno proprio sull’autore de il Milione, la fa risalire a un’altra leggenda, quella che Marco fosse stato catturato dai genovesi nel 1298 in una battaglia nelle acque vicine all’isola di Curzola, in Dalmazia. Cosa che lo storico «serenissimo» esclude: «Pare piuttosto che, durante uno dei suoi viaggi, fosse finito nelle mani di corsari genovesi davanti a Laiazzo, sulla costa della Cilicia».

Ma il punto non è questo. Ammesso che possa esistere l’ipotesi che Marco fosse nato casualmente a Curzola (anche Italo Calvino, per dire, nacque casualmente a l’Avana ma a nessuno verrebbe in mente di definirlo uno «scrittore cubano»), non solo l’isola che oggi i croati chiamano Korcula era di cultura venezianissima, come testimoniano la città vecchia, le porte con il «Leon» e la cattedrale di San Marco, ma era un feudo della famiglia Zorzi. E tale sarebbe rimasta fino alla metà del quindicesimo secolo.

Attribuire natali «croati» non solo a Marco Polo ma a qualunque abitante della Curzola di allora solo perché oggi l’isola è in territorio croato, è una stravaganza storica. Con lo stesso metro, poiché l’antica Tagaste allora sede episcopale della Numidia si chiama oggi Souk Ahras ed è nell’attuale Algeria, Sant’Agostino per esser nato lì sarebbe un filosofo algerino. Settimio Severo, essendo nato nella romana Leptis Magna a due passi da Al Khums nell’attuale Tripolitania, sarebbe un imperatore tripolitano e Giustiniano nato nell’attuale Zelenikovo in Macedonia sarebbe un imperatore macedone o se volete, visto che governava nell’attuale Istanbul, turco. Per non dire di Giuseppe Garibaldi, che essendo di Nizza sarebbe un patriota francese.

Ridicolo. Non bastasse, spiega Zorzi, Marco Polo non nomina mai (mai) Curzola nel «Milione» dettato nelle prigioni di Genova a Rustichello da Pisa (un redattore di romanzi cavallereschi che si scrivevano allora in lingua d’oeil come in lingua d’oeil è il libro originariamente intitolato «Le livre de Marco Polo citoyen de Venise, dit Million, où l’on conte les merveilles du monde») né Curzola è mai nominata in tutti i documenti di famiglia conservati a Venezia.

Materiali abbondanti, dai quali è possibile risalire alla storia venezianissima di tutta la stirpe Polo (quasi certamente insediata dalle parti di San Trovaso) a partire dal X secolo: nati, morti, matrimoni, mogli, testamenti… Tutto.

Come è dunque possibile che l’ex presidente croato, se non vogliamo mettere in dubbio la cronaca dell’agenzia Hina ripresa dal quotidiano della minoranza italiana «La voce del popolo» di Fiume, sia stato invitato dalle autorità cinesi a inaugurare un museo del navigatore veneziano proprio a Yangzhou, dove Polo racconta di aver avuto incarichi amministrativi dall’imperatore Kubilai Khan e dove si sarebbe fermato anche, qualche anno dopo, il missionario Odorico da Pordenone? E com’è possibile che il nostro governo e le nostre autorità diplomatiche siano riusciti a far passare in Cina, con tutto il peso che ha per i reciproci rapporti di amicizia, gli scambi commerciali e il turismo, una figura immensamente famosa tra i cinesi quale quella dell’autore de «Il Milione»? Con tutto il rispetto per Stjepan Mesic, possiamo accettare che vada lì a ringraziare «per l’onore concessogli di essere lui a inaugurare un museo dedicato “a un viaggiatore del mondo nato in Croazia, il quale ha aperto la Cina all’Europa, e che con i suoi scritti ha anche risvegliato l’interesse dell’Europa per la Cina”»? Alla larga dal nazionalismo rancoroso e dal risentimento per l’espulsione di 350 mila italiani dall’Istria, dal Quarnero e dalla Dalmazia: abbiamo già visto, proprio nella ex Jugoslavia, cosa può succedere se si coltiva l’odio. È andata così, amen. Lo sgarbo di Yangzhou, però, è l’ultimo di una serie di «appropriazioni indebite» da parte dei nazionalisti di Zagabria di un patrimonio culturale che non è loro.

Vale per quei dépliant turistici di Spalato dove i nazionalisti slavi ribattezzarono il Leone di San Marco «Leone post-illirico». Vale per il promemoria «addomesticato» fornito a Giovanni Paolo II per la sua visita in Dalmazia del 1988 che indusse il Papa a dire che «Spalato e Salona hanno un’importanza del tutto particolare nello sviluppo del cristianesimo in questa regione, a partire dall’epoca croata e poi in quella successiva romana», come se gli slavi non fossero arrivati al seguito degli Avari tra il settimo e l’ottavo secolo ma un millennio prima. Vale soprattutto per la mostra nella Biblioteca Vaticana inaugurata in occasione del Giubileo da Franjo Tudjman, uno che nello sforzo di annientare anche il ricordo della cultura veneto-italiana si era spinto a definire Marco Polo «croato di stirpe e di nascita».

Si intitolava, quella mostra, «Arte religiosa e fede croata». Ma, a dispetto del tentativo di spacciare la Basilica veneziana di Parenzo quale «alta espressione dell’arte croata», lo stesso professor Miljenko Domijan, uno dei coordinatori, riconobbe col quotidiano «Novi List» che si trattava di una forzatura.

Effettivamente, spiegò lo studioso, l’esposizione spacciava col marchio croato tante opere figlie della cultura italiana: «Non si poteva fare altrimenti perché la produzione di esclusiva etnicità croata ha scarso valore. Non so proprio che cosa potremmo mostrare, sarebbe tutto sotto un certo livello». Furono così croatizzati il ritratto del vescovo di Spalato di Lorenzo Lotto, una Pietà del Tintoretto, un busto argenteo di Santo Stefano opera dell’oreficeria di Roma, una statua di San Giovanni da Traù del toscano Niccolò Fiorentino, l’arca di San Simone di Francesco da Milano (nel catalogo ribattezzato «Franjo iz Milana»), una tela del Carpaccio e ancora piani e documenti della cattedrale di Zara in stile pisano o di quella di Sebenico costruita da Giorgio Orsini da Zara. Croatizzato, si capisce, col nome di Juraj Dalmatinac…

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