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2013, l’anno di Padre Flaminio Rocchi (7) – 04apr13

Nel nostro settimo appuntamento con la vita di Padre Flaminio Rocchi, di cui ricorre quest’anno il decennale della morte e il centenario della nascita, leggiamo alcuni sui passi sull’Esodo, elemento centrale del suo impegno di Apostolo degli Esuli.

 

Anche sull’Esodo, lacerante ferita del suo cuore per tutta la vita, non mancano i suoi racconti, sempre improntati sulla necessità di far conoscere e comprendere il contesto nel quale si realizzò.

«Dopo 1’8 settembre 1943 la piccola Istria è stata teatro di una guerriglia feroce: spettatrice e vittima la popolazione. Ai tedeschi, disperati per la sconfitta, irritati per l’abbandono italiano, braccati dai partigiani, non basta l’occhio per l’occhio, ma dieci italiani per un tedesco ucciso. Deportano nei campi di sterminio 3.215 giuliani. I partigiani slavi galvanizzati da una vittoria insperata contro l’invincibile Hitler, umiliati dall’attacco di Mussolini, si vendicano contro i primi italiani che incontrano. Gettano nelle foibe oltre 12.000 istriani con donne e bambini, con 968 carabinieri, finanzieri e agenti di Polizia. Di notte le donne osservano dalle finestre le case in fiamme.

Sono 36.191 roghi (su 100 mila case), che si alzano nella notte istriana mentre uomini e animali fuggono nei campi. C’è un’atmosfera di sospetto, di delazione, di antichi rancori, di odio politico. Basta una carta da gioco italiana, l’egoismo di salvare sé stessi. La collaborazione diventa una parola maledetta. Un pezzo di pane può condannarti a morte. Hai paura di avere una spia anche in casa. Un soldato, un politicante improvvisato si diverte a giudicare, a condannare, a uccidere. Preti che ospitano capi partigiani e preti che sbattono la porta a un confratello perseguitato. Senzadio che spaccano crocifissi nelle scuole e nei cimiteri e altri che chiedono il viatico. Cadaveri che penzolano dagli alberi nei giardini e le braccia di un cadaverino di soli due anni, strette al collo della madre morta. Pezzi di buoi, di asini, di carri che saltano per aria con gambe di uomini e teste incassate nell’elmetto.

Focolari obbligati a cuocere una sera minestroni e galline per i tedeschi e la sera dopo per i partigiani. Un figlio nell’esercito italiano e un altro mobilitato dai partigiani. Sei interrogato, ma non rispondi perché hai paura di sbagliare, perché non conosci il croato e una parola in italiano può rovinarti. Il vento ti porta in casa dalla vicina Foiba l’odore acre della catasta di corpi in decomposizione, compreso quello di tuo marito, di tua figlia. Ma tu non ti puoi affacciare, non puoi deporre un fiore perché quei morti sono stati definiti “criminali”. L’unico avvenire dei tuoi figli è il comunismo balcanico.

Devi abbandonare la chiesa, smettere di pregare, marciare dietro la bandiera rossa, ignorare di essere nato italiano, imparare una nuova lingua, denunciare anche i parenti sospetti perché vengano eliminati. Queste idee e queste notizie corrono da un campanile all’altro, da una cucina all’altra, si gonfiano, si deformano, creano disorientamento, angoscia.

Non c’è un’autorità alla quale rivolgersi. In questo clima di morti straziati e di vivi disperati nasce la terribile parola: esodo. Risuona sui campi e sui focolari, sulle barche e nei negozi, negli uffici e nei cantieri, nei conventi e nelle canoniche, perfino nei palazzi vescovili. Così si svolge l’esodo, come un’antica processione biblica di 350.000 persone con tre vescovi in testa seguiti da oltre 200 preti, da una quindicina di comunità di frati e di monaci, da una ventina di comunità di suore, da famiglie intere, da vedove e da orfani di recente lutto.»

«L’esodo dei giuliani comincia alla fine del 1943 e raggiunge il massimo negli anni 1947-1948. Per l’esule perseguitato che fugge tutti i mezzi sono buoni: il treno-merci e il carro-agricolo, il piroscafo e il trabaccolo, la fuga notturna attraverso i boschi e la barchetta a remi. È una lunga, dolorosa processione che si snoda attraverso tutte le strade d’Italia perché i 109 Campi di Raccolta sono disseminati in tutte le regioni. Sono 350 mila, affamati, spauriti, disorientati. Hanno un povero fagotto sulle spalle e trascinano per mano 50 mila bambini. Scompaiono silenziosi nelle baracche di legno, negli androni delle caserme abbandonate dai soldati.»

«E singolare il dolore dell’esule che parte. Prima va a salutare la sua terra, lavorata inutilmente fino a ieri. Osserva le crepe parlanti dei vecchi olivi e le viti, piccole e umili, ma dolcissime, che gli protendono i tralci che non vendemmierà. Nel mandracchio assicura l’ancoraggio della sua barca da pesca, come per illuderla che si sarebbe allontanato più del solito. La moglie va al cimitero. Pulisce ed accarezza le fotografie come se fossero i volti dei suoi bambini. Poi raccoglie in una valigia l’essenziale permesso dalla polizia: non più di cinque chili. Nei cassetti seleziona, scarta tra le lacrime. Ora eccoli ambedue, ritti, muti, davanti alla loro casa: quella che lui aveva ereditato o costruito; che li aveva accolti sposi con tante speranze, che ha protetto i loro amori e le loro lacrime. Lasciano la porta aperta perché l’occupatore non scardini la serratura. Quante volte lei ha lavato quella soglia. Lui aveva incorniciato il rustico ballatoio con una frangia di rampicanti di moscato istriano. Le finestre, quelle che si spalancavano alla luce del mattino, quelle delle canzoni delle giovani e del profumo dei gerani, li salutano scuotendo le tendine. Se ne vanno in silenzio, verso il nulla, mentre dietro la stampa slava irride. […]

L’esodo è quello dello studioso che saluta il Leone di S. Marco, ma anche del contadino che stacca le scarpe dalla sua terra; dello storico che abbandona la loggia veneziana e della casalinga che spegne l’ultima brace del suo focolare; del prete che bacia il suo altare e della vecchia che accarezza la croce del suo cimitero; del sindaco che chiude il portone del municipio e del campagnolo che scioglie la cavezza dell’asino che resta; del patriota che stringe la sua bandiera e dell’operaio che ripiega la tuta; del deportato, dell’infoibato e del bimbo in braccio che guarda e non comprende le lacrime della madre. Pazzia, disperazione, ribellione, brandelli di anima rimasti impigliati nei ricordi, tanta, forte, cieca speranza. L’esodo non è una barca che può ritornare. È una radice strappata dalla crepa di una pietra sacra.

Profugo, nella solitudine, cerca la chiacchierata con l’amico istriano, quello popolare; con l’amico fiumano, un po’ sostenuto come uno del “Corpus Separatum”; con l’amico dalmata, un po’ difficile come un romano decaduto. “EI xe un trapoler -dirà la sera alla moglie- ma el xe dei nostri”. Ora il vecchio esule si guarda le mani ormai slavate ed inutili. Il sogno è lontano. I ricordi svaniscono, i nipoti lo guardano come un rudere.»

«Esodo doloroso, spesso drammatico, ma che si è rivelato come unico mezzo per sfuggire alla morte, qualche volta al supplizio, per liberarsi da un marxismo che non ammette coesistenze, per conservare i diritti della propria origine latina e cristiana. Lo confermano le continue fughe di coloro che per vent’anni hanno cercato inutilmente una coesistenza dignitosa e che poi hanno tentato di riconquistare la libertà attraverso l’Adriatico col rischio di venir presi e deportati e con la sola prospettiva di finire in un campo di raccolta in Italia, senza cittadinanza e senza alcun diritto.»

«La gente comincia a raccogliere le masserizie. Schioda i quadri, i lampadari, perfino le porte e gli infissi delle finestre. Nella case i colpi di martello battono sui grandi cassoni come su bare. Camions, carretti a cavallo e a mano portano attraverso le vie della città, verso il porto, materassi, sacchi, valige, lettiere, sedie, cucine economiche. Passando vicino all’anfiteatro, molti strappano una scheggia: sarà una reliquia-ricordo. I soldati inglesi osservano sconcertati. E’ una fuga biblica tra lacrime, preghiere ed imprecazioni. L’inverno è gelido. Sulla fanghiglia delle banchine del porto le masserizie si accumulano. Il “Toscana” farà 12 viaggi tra Pola e Venezia. A bordo ci sarà sempre un vecchio sacerdote che conosce tutti, che cerca di incoraggiare, ma piange anche lui: mons. Felice Odorizzi.»

«Da tutti i centri dell’Istria la popolazione parte a gruppi e alla spicciolata. […] Le radio, i ferri da stiro elettrici, l’argenteria, gli strumenti di lavoro e professionali e tutto ciò che piace ai “capi” viene requisito. La gente corre a deporre un fiore al cimitero, brucia i quadri, i documenti, le fotografie, dalla finestra getta un ultimo, lento sguardo sulla distesa dei propri campi, saluta tra le lacrime i vecchi che non hanno la forza fisica per fare i profughi, e si avvia in fretta verso la stazione. Gli slavi sghignazzano, insultano e strizzano l’occhio verso le case abbandonate. La Polizia rimescola con mani avide la biancheria nelle valige. Partono i treni-merci, le corriere, i carri agricoli e alle spalle restano le case vuote, con la porta aperta: un augurio per il ritorno.»

«I profughi sentono il peso e la responsabilità della fuga. Hanno paura. Passano alla periferia delle città e si chiudono in un dignitoso riserbo nei campi vuoti dei prigionieri di guerra. Non portano per le piazze il loro esodo. Forse anche per questo è poco conosciuto.»

«La diffidenza di certa opinione pubblica mi obbligherà a riportare episodi ed immagini al limite della credibilità e del pudore. Per questo preferirò lasciare la parola agli stessi protagonisti, a personalità di indiscussa attendibilità, agli stessi slavi. Sono loro che, sollevando il velo su quegli episodi e su quelle immagini, porranno l’esodo dei giuliani, dei fiumani e dei dalmati in una luce di legittimità.»

«Maria Bracco è un’amica di Luzzatto Fegiz. Gli slavi la vogliono obbligare a firmare ogni sera l’atto di presenza con il cognome “Brakoc”. Lei si rifiuta di rinunciare al suo vecchio cognome abruzzese. Una sera una voce amica sussurra alla sua finestra che l’indomani sarebbe arrivato un camion a prelevarla, e che la mattina presto una barca di fuggitivi sarebbe partita dal Vier di Ossero per Trieste. Il mare è grosso. La mattina del 16 ottobre del 1945 partono in sedici: nove uomini e sette donne. Il viaggio si prolunga per quattro giorni. I fuggitivi restano senza acqua. Lungo la costa istriana incontrano la barchetta di un pescatore che si offre di trasportare a terra le sette donne per rifornirsi di acqua e per assolvere le necessità corporali. Ma poi si dirige verso il porticciuolo per denunciare le fuggitive. Queste si ribellano, strillano, invocano l’aiuto dei compagni di fuga. Il delatore pigia rabbiosamente sui remi che gli si spezzano l’uno dopo l’altro. I sedici fuggiaschi, sfiniti dalla sete e dalla stanchezza, arrivano a Trieste. Si disperdono. C’è un clima di paura. “Ci dispiace ma non possiamo” rispondono le porte di conoscenti. La giovane Bracco, bagnata e in lacrime, si ranicchia nell’angolo freddo e buio di un portone. Una signora, rimasta sconosciuta, l’accoglie, la riscalda, la fa dormire nel letto di un colonnello ospite che per quella notte sarebbe rimasto fuori Trieste. La giovane, fervente cattolica, si chiuderà nella clausura di un monastero di clarisse. Racconterà la sua avventura come una favola di altri tempi.»

«Noi ringraziamo questo nostro Dio che ci ha dato il coraggio di affrontare come Lui la strada dolorosa dell’esodo: un esodo fatto di incomprensioni, di baracche di legno, del sussidio dei poveri. Lo ringraziamo perché ci dà la forza di pregare per la loro pace, per inviare viveri e medicinali per i loro ammalati.»

«Non si sono ribellati. Non hanno risposto con la violenza a coloro che li cacciavano dalle proprie case, che venivano a mangiare sui loro focolari, che venivano a dormire sui loro letti. Hanno raccolto in un fagotto i venti chili permessi di indumenti, hanno deposto l’ultimo fiore sulla tomba dei loro padri e hanno intrapreso la via dolorosa dell’esilio verso l’ignoto. Non nutrono vendette. Nell’esilio venerano i loro Santi Patroni, raccolgono offerte per le chiese dove sono stati battezzati, per i cimiteri dove dormono i loro cari.

Nascondono nel riserbo della loro dignità il dolore dell’esodo. Passano in silenzio alla periferia delle città e dell’attenzione dei politici e del popolo.

Hanno paura di disturbare. Non sfilano nei cortei di proteste. Non sbandierano con striscioni il loro dolore. Piangono nella baracca del Campo Profughi. Ma in pubblico dicono che non piangono, perché nessuno capisce il loro pianto.»

«Giovanni Leone, già Presidente della Repubblica, l’ho conosciuto personalmente: era un napoletano esuberante, dialettale, simpatico. Ed era un amico dei profughi. Nel 1966 intervenne a Gorizia al congresso della nostra Associazione e nel salone del Castello disse: “Le radici dell’uomo sono radicate più profondamente che quelle dello stesso albero. Ritengo che sia più facile sradicare un albero, portarlo lontano e farlo rifiorire, che sradicare un uomo e farlo rifiorire fuori della propria comunità. Noi ci pieghiamo innanzi alle vostre piaghe, alle vostre ferite con umiltà, con devozione. […] Scrivo la vostra parola di Profughi con la P maiuscola e mi inchino davanti a voi come feci nel 1916 davanti ai veneti che scappavano davanti all’invasione austriaca”.»

«Spesso chi è rimasto nella Venezia Giulia si sente più esule di chi è scappato. “Le case vuote sono state presto riempite da gente nuova, venuta dalla Croazia, dalla Bosnia, dal Montenegro, portando con sé un costume di vita di ben diversi paesi” (Miglia 1968). C’è un tormento psicologico che spinge all’esodo: il sentirsi tollerati in casa propria, straniero per le strade del paese che era tuo e che si va trasformando sotto i tuoi occhi. L’isolamento sociale ti rinchiude nei tuoi ricordi che, attraverso il rimpianto, si fanno meravigliosi, ossessionanti. Davanti agli sportelli pubblici sei un mendicante analfabeta, col cappello in mano, obbligato ad annuire anche quando hai capito soltanto il tono duro di una lingua incomprensibile. Nell’osteria non ti vogliono come compagno di un bicchiere di vino, di una partita di carte. Gli scherzi mancano di disinvoltura. Uno sbaglio ti fa paura. In chiesa anche Dio sembra triste. Se lo frequenti, ti diranno che sei un reazionario e non daranno lavoro a tuo figlio. Per strada devi scappellarti davanti al “capo” che ti è antipatico. Devi assistere al comizio con una contrazione dolorante tra la bocca che sorride e il cuore che batte a morto. Non è facile per i vecchi genitori dire ai figli: “La nostra vita ha già preso la via del cimitero. Voi scappate, lasciateci. A voi la vita sorriderà in Italia, in America”. E poi si consumano lentamente davanti alle fotografie dei figli, mentre il cuore va frugando lontano nella nuova vita dei figli e va cercando il volto delle nuore, dei nipoti che parlano un’altra lingua. Tutto questo rode, spezza la resistenza psicologica e spinge verso l’esilio. “Finirò in una casa per vecchi, ma negli ultimi giorni della mia vita respirerò aria di libertà”.»

 

 

 

 

Prima puntata: biografia sintetica https://www.anvgd.it/notizie/14901-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-1-12mar13.html

Seconda puntata: vita da cappellano militare https://www.anvgd.it/notizie/14913-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-2-14mar13.html

Terza puntata: l’esperienza di cappellano militare in Corsica https://www.anvgd.it/notizie/14945-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-3-19mar13.html

Quarta puntata: i ricordi della sua Neresine https://www.anvgd.it/notizie/14961-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-4-22mar13.html

Quinta puntata: l’impegno nell’ANVGD https://www.anvgd.it/notizie/14987-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-5-26mar13.html

Sesta puntanta: le Foibe https://www.anvgd.it/notizie/15014-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-6-02apr13.html

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