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2013, l’anno di Padre Flaminio Rocchi (3) – 19mar13

Eccoci al terzo appuntamento con la biografia di Padre Flaminio Rocchi, in occasione del cententario della nascita e del decennale della morte. In queste righe sull’Apostolo degli Esuli i ricordi dell’esperienza di cappellano militare in Corsica.

 

Sul lungo periodo trascorso come cappellano militare in Corsica, ecco una lettera del 1992 di Tito Sidari, nella quale l’esule gli racconta di essere stato in quegli stessi luoghi alla ricerca di testimonianze di quegli anni.

«Le porto via un po’ di tempo per raccontarLe le fasi della mia ricerca, perché desidero farla partecipe in qualche modo di ciò che ho provato. Trovandomi in vacanza con la mia famiglia presso Ajaccio, mi sono ricordato di quanto lei narra a pagina 276 e 277 de “L’esodo dei 350.000 Giuliani, Fiumani e Dalmati” ed ho pensato di andare a vedere come stessero le cose a oltre 48 anni di distanza; fui spinto dalla curiosità, ma non soltanto da quella. Un pomeriggio dissi ai miei che desideravo andare alla ricerca di alcune lapidi nel cimitero della città.

Rimasero allibiti, tanto più quando spiegai che si trattava di sepolture di militari jugoslavi della 2Guerra Mondiale. Ma come? Quelli che ho sempre descritti come il Nemico …? Forse quelli non erano proprio il nemico, ma insomma non potevo spiegarmi meglio? In effetti non fui in grado di spiegarmi; dissi che un nemico caduto diventa solo un uomo ….. frasi non facili, magari già sentite, molto retoriche; per essere intese in realtà presuppongono di aver già trovato alcune risposte a lunghe riflessioni sulla coesistenza dei popoli, sulla fratellanza, sugli orrori sentiti raccontare dai propri genitori, sul pane tuttavia dato ai “drusi” conquistatori, perché entravano in Pola morenti di fame e di stenti, quegli stessi che poi riprendevano il sopravvento e ci davano la caccia per le strade…

La partenza fu quindi la parte più difficile, perché si trattava di prendere coscienza di cosa mi spingesse realmente. Fui contento di non aver insistito che qualcuno venisse con me, infatti il pomeriggio fu caldissimo, estenuante. Superato il centro di Ajaccio, giunsi in vista di quegli strani piccoli cimiteri “privati” che giacciono in riva al mare alla periferia ovest della città; scrutandoli attentamente li oltrepassai e fermai l’automobile vicino al portale d’ingresso di un vasto camposanto, che avevo individuato sulla mappa prima di partire. Non trovando anima viva, nella calura accecante percorsi viali e stradine alla ricerca di quelle posizioni che avevo in mente ben chiare, ricordando le due foto del libro sull’Esodo; ad ogni svolta speravo di essere arrivato: “agave marina …”, “un cordoncino di cemento …”, “una croce con le tre vette del Monte Tricorno …”, ma non coincidevano né la scena, né alcun particolare.

Finalmente trovai una signora che accudiva un giardinetto; sulle sue indicazioni, intese in modo errato a causa del mio stentato francese, andai a cercare i custodi fin nelle strade vicine, tutte deserte, senza esito; lo scoramento e la calura insopportabile mi stavano facendo desistere, quando si fermò un’altra auto presso la mia e dalla famiglia che ne scese seppi che gli uffici del cimitero esistono, ma presso l’ingresso principale, che si trova ancor molto più avanti, dopo una curva della strada litoranea su cui eravamo.

Entrato nel lindo e ombroso ufficio devo aver dato una strana sensazione, perché i tre funzionari che vi si trovavano mi guardarono preoccupati; poi cortesemente mi fecero sedere, offrendomi dell’acqua e raccomandandomi di prendere fiato. Appena ebbi espresso il mio desiderio di trovare le sepolture di alcuni soldati jugoslavi caduti verso il 1943, il funzionario più autorevole mi rispose istantaneamente, con sicurezza, come se avesse preparato da ore la risposta a una richiesta così improbabile: “Mais oui, Monsieur; le tombe che lei cerca sono nove; non sono qui, ma nel cimitero di Sant’Antonio; come lei può vedere nella grande fotografia aerea alle Sue spalle, sono le nove croci a destra della Piattaforma d’Onore”. Stupefatto, mi complimentai per la sua preparazione. “E’ nostro dovere, Monsieur”. Ricevetti poi varie indicazioni utili per raggiungere il luogo, tenendo conto di interruzioni stradali per lavori nella parte alta della città. Nel salutarmi mi chiesero: “Il signore, ovviamente, è jugoslavo ? …” – “No! Io sono italiano! Ma … desidero riferire a una persona che conosco.” Mi guardarono con cortesia, ma senza capire.

Ristorato da quel riposo all’ombra, riattraversai il centro pieno di traffico e presi a salire verso le colline, finendo nel bel mezzo dei cantieri stradali; per viuzze secondarie mi ritrovai in periferia sulla strada giusta. Dopo poco trovai i depositi di robe vecchie e di sfasciacarrozze che mi erano stati descritti ed infine una orribile discarica di rifiuti urbani, fumigante, che ammorbava l’aria. Tornato indietro di pochi metri, vidi in mezzo ad oleandri in fiore il portone del cimitero di S. Antonio. Lasciata l’auto, corsi verso il cancello, temendo di trovarlo chiuso, perché ormai il pomeriggio era abbastanza inoltrato; una porta pedonale era, però, aperta; penso che venga chiusa di sera da un incaricato che si reca là appositamente.

Il cimitero è in salita, sul fianco di una collina; in lontananza sembra di vedere il mare; è in ottimo stato, pulitissimo, con molte piante da fiore. Ha purtroppo davanti, malamente schermata da alberi, quella discarica di rifiuti, vergogna per l’amministrazione che ne ha concessa l’offensiva collocazione. Però in fondo anche quella discarica ha un suo significato, un suo senso, anche se non voluto: può rappresentare la bruttura del mondo esterno, che non scalfisce minimamente la pace che regna entro quelle mura, così come i nostri rancori non possono giungere là dove è già passato qualcosa di ancor più grande, che chiede rispetto.

Il viale principale porta direttamente alla “Piattaforma d’Onore”, che comprende vari appezzamenti di terreno, tutti più o meno alla stessa quota, gravitanti attorno ad una spianata di pietra, con la bandiera e una lapide; essa dice che lì intorno sono raccolte le salme di molti che, in differenti campagne, hanno dato la vita per la Francia. Nel campo di destra per chi sale vi sono i 9 cippi originali, con le lapidi con nome, date di nascita e di morte e alcune parole, per me incomprensibili. Sopra i cippi sono 8 croci originali, con la lastra di marmo che reca, profondamente inciso, il simbolo della terra dei caduti, il monte Tricorno con il sole splendente. La nona croce, probabilmente perduta, è sostituita da una più piccola, un po’ rovinata; tutto il resto è in ottimo stato; sulla pietra fioriscono dei muschi, peraltro non spiacevoli su monumenti che hanno parecchi anni.

Confrontando con le foto originali del 1944, si potrebbe dedurre che le 9 tombe sono state spostate dalla posizione originale, dove erano contornate da cappelle di famiglia e dotate di un cordolo e di un’agave ciascuna. Sulla quarta lapide da sinistra è appoggiata una vecchia corona in materiale sintetico con i colori bianco, rosso e blu. E le date? Un ragazzo di 18 – 19 anni, che sua madre non rivide più; un uomo di 40 anni che forse lasciò moglie e figli; gli altri tutti giovani … Ho letto poi intorno decine di altri nomi: un indiano, un africano, italiani, sconosciuti … Una delle cose più sconvolgenti del mondo intorno a noi è la lapide del caduto sconosciuto; sono tante, in tante lingue, in ogni luogo; esse sono sempre lì, come un monito, urlano, ma nessuno le ascolta mai. Dopo una preghiera e una meditazione sono venuto via.

Il libro non lo dice, ma immagino che questi uomini siano morti per malattia o a seguito di ferite riportate al fronte; non so se la Corsica sia stata bombardata dopo l’8 settembre 1943. Vedendo l’indicazione stradale per un vicino ospedale e immaginando una correlazione, che forse non esiste, con quei caduti, sono andato a cercarne traccia, per avere qualche notizia. Però mi sono trovato all’improvviso in un recinto in mezzo a padiglioni ospedalieri, all’apparenza di costruzione recente; sentendomi ed essendo chiaramente un intruso, ho girato l’auto e sono tornato dai miei cari.

Questa, Reverendo Padre, è la storia di quel pomeriggio in cui ho scattato le foto. Per me è stata un’esperienza interessante e benefica; spero che per Lei non sia stata una noia leggere.»

Di fronte ad una certosina ed ammirevole ricerca, Padre Flaminio non mancò di confidare al suo interlocutore, ulteriori particolari della sua esperienza.

 

«Caro Signor Sidari, ho letto e meditato con commozione la Sua bellissima lettera del 20 dicembre. Le Sue osservazioni mi hanno riportato indietro di 50 anni. Mi rivedo in mezzo a quelle mie croci che posi con amore e con preghiera. Sono state spostate dal Cimitero civile in quello militare. Mi vedo a capo dei funerali con l’accompagnamento di cori sloveni, lenti e tristissimi. Ricordo tutti i morti perché ho vissuto la loro agonia, anche se erano miei nemici politici.

Una sera facevo l’autostop con tre sloveni. Passò un camion americano ma l’autista nero non si fermò, anzi allungò il braccio fuori dal finestrino, mostrando le corna. Nacque una reazione violenta, anche a causa del vino. Sentii la lama di un grosso coltello penetrare nella tempia di uno sloveno.

Durante una messa domenicale lessi una lettera che mi era pervenuta tramite il Vaticano: “caro papà, ho fatto la prima Comunione, ho pregato per te, ma ho detto alla mamma che la torta la avremmo mangiata al tuo ritorno”. Tre giorni prima avevo staccato la salma di quel papà da un albero sul quale si era impiccato per disperazione.

Passando davanti un’osteria sentii uno sparo. L’assassino mi porse la mano ancora tremante dicendo: “ho dovuto sparare perché mi aveva portato via la fidanzata”.

Una scheggia aveva squarciato il ventre di un giovane. Il chirurgo mi pregò di infilare la mano nello squarcio per comprimere le interiora che schizzavano fuori mentre lui cuciva la pelle. Sento ancora il calore umido delle interiora e del peritoneo lacerato. Un’ora dopo morì.

Un moribondo mi chiamò e volle dettarmi l’ultima lettera alla moglie e alle sue due bambine. Con un filo di alito bisbigliò i nomi e alcuni aggettivi affettuosi, ma sconnessi. Gli chiusi gli occhi. Completai la lettera quasi piangendo. La famiglia la conserva ancora come una reliquia, ma era una santa bugia di un frate.

Questa gente disorientata, umiliata, spesso arrabbiata, mi preparava l’altare in una tenda per celebrare la Santa Messa. A fianco del crocifisso metteva le fotografie, tolte da riviste americane, di Stalin e di Tito. Per loro erano due santi liberatori. Io guardavo sorridendo il mio crocefisso tra quei due ladroni. Eravamo ai primi del 1944. Ho rispettato la loro libertà e anche la loro ignoranza.

Per la Pasqua dello stesso anno portai un loro coro di una ottantina di elementi ad Aiaccio per cantare al pontificale del vescovo, presenti, come ospiti, le massime autorità militari americane. Fu un vero trionfo di musica, commentò il giornale locale. Lo stesso vescovo li ringraziò ed elogiò dall’altare. Immensa fu la mia gioia di aver portato alla ribalta questi poveri uomini, considerati servi lavoratori prima nell’esercito italiano, poi in quello americano. Una piacevole vendetta dei poveri. ma completai la festa con un secondo, solenne “pontificale” laico con l’aiuto della ricca sussistenza americana: un pranzo con grossi tacchini venuti dall’America, con un forte vino nero locale e con un ricco repertorio di canti sloveni compreso l’italiano “La Montanara”.

Ho fatto cinque anni di vita militare prima nell’esercito italiano, poi in quello americano, ma ho sempre provato una grande e piacevole letizia francescana nello sperperare lo stipendio per la gioia dei poveri e per la pace dei morti. Dopo 50 anni essi sono ancora i morti delle mie preghiere. Il rullo della storia è passato anche su questa vicenda. I due “ladroni” sono caduti. Il medaglione del Tricorno poteva sembrare un gesto incosciente. Per me era un gesto di pietà per chi soffriva e moriva. L’ho ricordato nel 1978 al tribunale di Lussinpiccolo. Ma i giudici slavi non mi hanno creduto e m’hanno condannato a non mettere piede per cinque anni nella terra né del Tricorno, né della Scacchiera. Anche questo fa parte della letizia francescana.

Queste, caro signor Sidari, sono le considerazioni che mi sono venute spontanee, leggendo la Sua lettera e osservando le Sue fotografie. Grazie.»

L’esperienza militare rimarrà indelebile nel cuore del giovane Flaminio. Più tardi ne userà le argomentazioni per respingere le insinuazioni nei suoi confronti in riferimento alle sue pubblicazioni sull’Esodo e sulle Foibe.

«Qualcuno cercherà in questo scritto parole di odio, di politica. Non le troverà. Durante cinque anni di guerra in Corsica, inquadrato prima nell’esercito italiano, poi in quello americano, ho visto uomini di quattro eserciti rincorrersi, scontrarsi, uccidersi in una confusione violenta di ideologie, di patrie, di armi: americani, francesi, italiani e cinquemila lavoratori sloveni militarizzati. Nel 1944 ho sepolto ad Ajaccio e a Bastia 200 sloveni, comunisti filotitini. Ho benedetto le loro bare coperte dalla bandiera slava con la stella rossa. Si professavano cattolici. Accompagnavano i funerali con cori lenti e armoniosi. Ho celebrato la S. Messa davanti a un Crocifisso con a fianco due grandi fotografie di Stalin e Tito. Col mio inutile stipendio in dollari ho costruito su ogni tomba una croce con due medaglioni in marmo: uno con il Triglav (stemma della Slovenia) e l’altro con il nome e una frase in sloveno.

La testimonianza fotografica si trova nel mio libro sull’esodo. Le autorità francesi conservavano i medaglioni di marmo nel museo militare di Ajaccio. L’ho fatto perché per me non contava né l’ideologia del precetto militare, né il colore della divisa, né l’arma che ha ucciso. Era un uomo, creatura di Dio. Io, piegato sulla sua salma, ero un semplice frate che pregava.»

Non mancheranno i ricordi di giovane sacerdote in guerra anche più avanti negli anni; non perderà mai i contatti con quell’esperienza terribile e meravigliosa allo stesso tempo. Eccone una testimonianza. Da una lettera del 1998 a Bastianina Cambule.

«Cara Bastianina, la signora Loreta Baretich m’ha portato il tuo ottimo mandorlato sardo ma specialmente tanti ricordi del 1943-44. A Padria trovai allora un’accoglienza commovente. Ricordo la nostra chiesa di Santa Giulia e quella di San Giuseppe. Il soggiorno con un grande braciere al centro di casa Cambule. La Bastianina sempre affettuosa, cordialissima, generosa verso la mensa ufficiali e verso i nostri poveri soldati, ammalati di febbre maltese. Si sono salvati con le medicine del Capitano Marabotti, dei tenenti Bindi, Lemmi e Prosperi, ma specialmente con la carne e con il pane che tu raccoglievi e ci portavi. Ricordo tuo fratello, grande, robusto, di poche parole. Ricordo le tre sorelle Pierina, Angelica e Mariuccia Poddighe, tue cugine, un po’ vanitose ma molto buone. Ho seguito con dolore le avventure del Parroco, finito a fare il cappellano nel Cimitero di Alghero. Mi sarebbe piaciuto rimanere come sacerdote a Padria. Si poteva fare tanto bene con la tua collaborazione e con quella di tante persone buone e brave come te.»

 

 

Leggi la prima puntata: la biografia sintetica

 

Leggi la seconda puntata: cappellano in guerra

 

 

 

Il giovane frate Flaminio nella sua Neresine

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