Cseppia

2013, l’anno di Padre Flaminio Rocchi (16) – 22mag13

In questa 16esima puntata sulla vita dell’Apostolo degli Esuli, in occasione del decannale della morte e del centenario della nascita, evidenziamo il rapporto di padre Flaminio Rocchi con “Difesa Adriatica”, il periodico dell’ANVGD su cui ha scritto centinaia di parole e che è stato il principale canale di informazione col quale ha raggiunto migliaia di famiglie di Esuli sparsi in tutto il mondo. I link delle puntate precedenti sono dopo la foto. Gli scritti sono tratti dal libro “Padre Flaminio Rocchi: l’uomo, il francescano, l’esule” pubblicato dall’ANVGD.

 

La vita del periodico Difesa Adriatica non è stata sempre facile. Padre Flaminio racconta in breve, in queste sue considerazioni, il travaglio di un periodo buio, nel quale il significato di buio sta nel non poter avere quel contatto diretto coi suoi profughi, che era rappresentato appunto dal giornale.

«Nel gennaio 1991 la Presidenza dell’Associazione aveva sospeso le pubblicazioni con l’intenzione di uscire con un giornale più moderno e aggiornato. Non se ne fece nulla. Difesa Adriatica non uscì più. Perdemmo così circa 5 mila abbonati. Decisi di uscire con un forte aiuto finanziario della mia famiglia con il quale dovetti pagare un debito di 5 milioni e 800 mila lire.

Con la preziosa collaborazione del Presidente Dott. Lucio Toth, proprietario del giornale, del Direttore Dott.ssa Patrizia Hansen, dell’amministratore Dott. Bernardo Gissi, Difesa Adriatica ha ripreso le pubblicazioni, in edizione mensile, nel maggio del 1994. Per ragioni di economia il giornale viene composto dal vecchio personale dell’Associazione. […]

Per me il giornale è una necessità per affermare con autorità i nostri ideali. E’ un documento che ricorda ai nostri giovani e agli studiosi la storia sconosciuta della nostra Regione, le cause e i sacrifici dell’esodo. E’ una grande lettera collettiva che unisce le nostre Comunità e i nostri profughi. E’ uno strumento indispensabile di lavoro. Per me è triste ottenere un beneficio, pubblicarlo sul giornale, e poi constatare che molti non ne hanno usufruito perché non erano abbonati. […]

Il giornale è un organo indispensabile per il lavoro assistenziale dell’Associazione. L’Associazione non riceve contributi né dallo Stato, né da altri enti. Vive con i contributi dei profughi i quali ritengono doveroso aiutarla per gratitudine e solidarietà.»

Il mensile Difesa Adriatica è da sempre la voce dell’ANVGD e da sempre è vissuto sotto l’impulso amorevole e determinato di Padre Flaminio. Sarebbero fin troppe le pagine di questo libro da poter riempire coi suoi articoli densi, significativi, importanti. Nell’imbarazzo della scelta, riporto semplicemente il suo ultimo articolo pubblicato in vita; non parla di un tema importante, ma è un episodio di quelle migliaia di rocambolesche fughe dei nostri profughi.

«Due giovani di Lussinpiccolo, il cameriere d’albergo Simone Sarich e il motorista navale Bosider Stuich, rispettivamente di 20 e 21 anni, vennero arrestati dalla gendarmeria jugoslava, a suo dire per ragioni politiche. Appena chiusi in prigione si accordarono per fuggire, ed attuarono il loro piano dopo qualche giorno. Venuti in possesso di un paletto, scardinarono la porta della cella e, al calar della notte, uscirono cautamente nel corridoio. La guardia di servizio dormiva placidamente. Allora le tolsero la rivoltella dalla fondina, calarono sulla strada a mezzo di una corda e raggiunto, col cuore in gola, il molo, saltarono sul primo peschereccio: il suo nome era Greben.

A bordo c’era un povero pescatore che a causa del tempo cattivo era voluto restare in cuccetta. Si chiamava Giuseppe Crivicic. Lo svegliarono e gli ordinarono di partire. Il malcapitato dovette obbedire ciecamente. Il peschereccio prese il largo, ma un guasto al motore lo mise presto in difficoltà. Il Crivicic dovette fare miracoli per riparare l’avaria, ma poco dopo un altro guaio: si era aperta una falla a prua e l’acqua invadeva lo scafo. Lo Stuich era fuori di sé. Il timore di poter essere ripreso da un momento all’altro lo rendeva furibondo, e urlava e bestemmiava. Per lunghe ore tutti e tre dovettero lavorare come negri per tamponare la falla: poi finalmente il Greben riprese a navigare, ma per poco, perché il motore tornò a incepparsi, e questa volta sembrò non ci fosse nulla da fare.

Bosider Stuich sembrava in preda ad un terrore folle. Pur di allontanarsi si costruì con una scaletta e alcune bocce di vetro, di quelle che si usano per mantenere a galla le reti, una rudimentale zattera con la quale decise di tentare da solo l’impresa disperata. Un tentativo assurdo, che le prime due ondate più violente valsero a frustrare. Passarono altre ore. Un aereo sorvolò a pochi metri il peschereccio; vide certamente i segnali di soccorso, ma virò scomparendo all’orizzonte.

I tre naufraghi riuscirono tuttavia a salvarsi. Ripararono il motore in un estremo tentativo e dopo due giorni giunsero ad Ancona. In porto c’era un piroscafo dal fumaiolo con la stella rossa, e lo Stuich, nello stato di agitazione in cui si trovava, credendo di essere stato ingannato dal marinaio e di essere stato condotto in un porto jugoslavo, impugnò la pistola e gridò al povero Crivicic: “Sei un vigliacco traditore, ma ti ammazzo come un cane!” E avrebbe certamente fatto seguire i fatti alle parole, se non fosse comparsa una lancia con agenti della polizia italiana. Stuich allora, bianco per l’emozione, si gettò fra le braccia dell’inebetito marinaio, chiedendogli perdono.

Ma a titolo di cronaca dobbiamo dire che la storia del peschereccio Greben non finisce qui: tornato a Lussinpiccolo esso venne di nuovo costretto, da un gruppo di fuggiaschi armati, a prendere la via dell’Italia. Il peschereccio sbarcò i fuggiaschi a Pesaro e solo dopo qualche giorno dopo i tre marinai che ne componevano l’equipaggio poterono rientrare alla loro base.»

Pur avendoci vissuto solo i pochi anni dell’infanzia, Flaminio era perdutamente innamorato della sua Neresine. Uno dei suoi sogni irrealizzati fu quello di scrivere un libro sul suo meraviglioso borgo. Pur avendo raccolto molto materiale negli ultimi anni della sua vita, non fece in tempo a portare a termine la sua opera. Esaudisco solo in minima parte il suo desiderio, dando spazio ad un suo lungo articolo ospitato da Difesa Adriatica, così da chiudere questo capitolo come lui sicuramente avrebbe voluto.

«Neresine era un paese audace. Era posto come una sfida contro il vento del nord. Tutti gli altri paesi dell’isola si erano nascosti alla violenza della bora dietro le colline. I neresinotti sono gli unici che hanno voluto affrontare in faccia le raffiche di centocinquanta chilometri all’ora.

Tutte le case hanno voltato le schiene dure e grezze contro il vento. Le finestre erano piccole con gli stipiti grossi di pietra bianca e levigata. Erano di pietra perfino le grondaie lungo l’orlo dei tetti, sostenute da mensole in pietra, perché quelle di zinco sarebbero state strappate dal vento. Non c’erano persiane, ma scuri di legno, grossi e pesanti; chiavardati, sprangati da lunghe barre di legno.

Il vento fischiava sui tetti e nelle fessure delle finestre. Faceva vibrare come corde di violini i rami secchi e le sartie delle barche. Le chiome degli alberi erano pettinate all’indietro. Le folate di vento trasportavano polvere di mare. Le pecore si riparavano dietro le masiere. Senza vanità poetiche noi, ragazzi, ci sentivamo figli del vento. Si correva giù dal colle verso la bora, sollevando le estremità della giacca sopra la testa, come un’ala. Tu sentivi l’ebbrezza del vento che ti sollevava, che entrava in bocca e nella camicia. Sentivi il fresco che ti accarezzava, ti graffiava, ma ti piaceva. Ti avvicinava ai gabbiani sopra il mare, alle cornacchie sopra i campi arati che volteggiavano e cabravano come alianti.

Nuotare sul mare piatto è da rana. Ma era bello provare l’esaltazione del nuoto perforando le onde o arrampicandosi come delfini e poi scivolare nella schiuma del solco liquido. Era bello lanciarsi a volo d’angelo dal molo o dalle sartie dei velieri, piegarsi su un fianco sott’acqua e vogare con le mani come con due pinne.

Un canale di circa tre chilometri separava Neresine dall’isola di Cherso. Era una piazza per i venti che vi si intrecciavano, impazzivano. Era un piacere lanciarsi nella danza con una barchetta a vela. Mi vedo ancora ragazzo, in costume da bagno, seduto a poppa, con la barra del timone vibrante in mano e con la scotta della vela avvolta nell’altra, i piedi puntati contro la panchina, lanciato in una lotta entusiasmante contro le onde e contro le folate improvvise. La barca filava come una lancia veneziana e fendeva la schiuma con la prua tagliente.

Al tramonto i contadini rientravano da Bora con una vogata lenta e stanca. Se c’era vento issavano la vela. Entravano solennemente nel mandracchio con due grossi baffi bianchi a prora. Al centimetro giusto viravano. La vela sbatteva. La prua girava e baciava la riva dell’ancoraggio. Se la bora era molto forte, il contadino non alzava la vela. Legava a prua una fascina. Si sedeva a poppa al timone e si lasciava trasportare dal vento. Le donne osservavano dalle finestre le barche che comparivano e scomparivano tra le onde ed entravano nel porticciuolo come da una passeggiata. Sfidare, dominare, gustare il mare.

I temporali avvolgevano la piccola isola con una ribellione selvaggia dal cielo e dal mare. S’affacciavano con nuvoloni grigi sopra la cima del monte. Si annunziavano con tuoni fragorosi che rotolavano minacciosi giù per i canaloni ripidi lungo 558 metri. I lampi scoppiavano nella nuvolaglia nera con bagliori ramificati, taglienti come sciabolate. Un vento denso lasciava cadere i primi goccioloni. Le galline si ritiravano sui trespoli del pollaio. La capra, legata all’albero, girava e belava nervosa. Le donne tiravano in fretta il telone sui fichi che si asciugavano. Raccoglievano la biancheria. Sprangavano gli scuri delle finestre. Accendevano in un bicchiere davanti all’immagine della Madonna un lumino ad olio. Il vento, carico di acqua, frustava e piegava gli alberi. La pioggia scrosciava e scendeva in cento ruscelli giù per i canaloni. Gorgogliava e trascinava terra e arbusti che, a valle, formavano gli orti.

Ma il fortunale scatenava anche una battaglia marina. All’inizio le raffiche correvano a ventaglio sulla superficie del mare come streghe impazzite. Poi il mare si gonfiava, bolliva, si infuriava, alzava la cresta, s’infrangeva violento rombando contro la scogliera, schizzando in spruzzi schiumosi, altissimi. Le onde si ritiravano con la risacca, si rigonfiavano e tornavano a rovesciarsi sui massi, volavano a brandelli, si polverizzavano contro gli alberi e contro i tetti delle case. I gabbiani spiavano dall’alto e, avvistato tra le onde un pesce incauto, stringevano le ali sui fianchi e vi si lanciavano come un aereo silurante.

Qualche volta, durante i fortunali più rabbiosi, all’ingresso del canale, tra Punta Croce e Lussino, appariva una tromba marina: vento vorticoso che si avvolgeva come una colonna a spirale verso l’alto fino a raggiungere venti, trenta metri. Era una proboscide nera e gigantesca che annaspava veloce sul mare ed era capace di artigliare e di sollevare barche e bragozzi, tetti e alberi per poi sciogliersi per esaurimento, lasciando cadere la preda. I velieri ne scrutavano la rotta e cambiavano la direzione a tutto motore. Per il marittimo questi fenomeni presentavano una forza misteriosa. Per questo l’antica mitologia li identificò con la divinità e chiamò il mare Nettuno e il vento Eolo.

Neresine aveva 39 velieri a vela e a motore. Navigavano nell’Adriatico e nel Mediterraneo con sei e otto uomini di equipaggio. Mio padre e lo zio Giuseppe Marinzulich avevano una splendida goletta di 120 tonnellate, la “Fabiola”. Sembrava un panfilo con lo scafo bianco, la carena rossa e la coperta tirata a olio. Aveva una cabina con oblò e un timone a ruota. Avevo undici anni e mio padre mi mise al timone durante un viaggio fino a Venezia: “ora comanda tu”. E’ impossibile per un uomo di terra ferma immaginare l’orgoglio di un ragazzo che dirige un vascello così fantastico con le dodici vele bianche, gonfie di vento. Filava verso la costa a cinque miglia all’ora, piegato su un fianco. “Molla!” – gridavo ai marinai con la vocina bianca. Essi scioglievano le scotte. Io viravo. Le vele cominciavano a sbattere. La nave riprendeva velocità. Le vele cominciarono a riempirsi di vento. La barca si piegava mostrando il labbro rosso della carena come un sorriso. A prua gorgogliavano due baffi di schiuma bianca. Mi sentivo l’ebbrezza di un ragazzo che aveva nelle sue piccole mani la maestà e la velocità di un gabbiano fantastico che volava nell’azzurro del mare e del cielo.

Poi l’abito francescano m’ha tenuto per cinque anni a Monselice, nella pianura padana: il regno della nebbia densa e umida mi stagnava, impigliata nei rami secchi degli alberi. Gli zoccoli di legno sollevavano zolle di terra appiccicosa. I geloni arrossavano e gonfiavano gli alluci dei piedi. Io studiavo teologia alla luce opaca di un finestrino con una coperta sulle ginocchia. Vivevo come un vecchio precoce e naturalmente spento. Fuori non c’erano orizzonti e gli uomini si muovevano come ombre. Sognavo come un gabbiano la luce, le trasparenze della mia isola ventosa, l’immenso azzurro del mare e del cielo limpidissimo. Tacevo perché i frati della padana avrebbero detto che ero una capra, un uccello selvatico.

Passai poi un anno nella laguna di Venezia, nell’isola di San Francesco del Deserto: «Beata solitudo, o sola Beatitudo». Una piccola isola, immersa nel caligo. Un nido di verde per i mistici che guardano soltanto in alto. Il mare era torbido. Le onde, lente e lunghe, si rivoltavano nella sabbia. Erano stanche e sporche. Sul fondo vegetavano le sogliole schiacciate, le granzievole molli, i pesci bianchi e flaccidi. Pensavo alle onde del mio mare che si inseguivano a cavalloni, che sorridevano con le criniere bianche, agli sgombri, ai dentici e ai riboni argentei, agli scorfani rossi e ossuti per il “brudeto”, ai granchi giganti da scoglio dal colore verde bottiglia e giallo, dalle chele minacciose come due tenaglie. Neresine per un esule è un sogno, un’isola del vento che galleggia nell’azzurro del mare e nella luce del sole.»

 

 

 

 

1. puntata: biografia sintetica https://www.anvgd.it/notizie/14901-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-1-12mar13.html

2. puntata: vita da cappellano militare https://www.anvgd.it/notizie/14913-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-2-14mar13.html

3. puntata: l’esperienza di cappellano militare in Corsica https://www.anvgd.it/notizie/14945-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-3-19mar13.html

4. puntata: i ricordi della sua Neresine https://www.anvgd.it/notizie/14961-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-4-22mar13.html

5. puntata: l’impegno nell’ANVGD https://www.anvgd.it/notizie/14987-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-5-26mar13.html

6. puntanta: le Foibe https://www.anvgd.it/notizie/15014-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-6-02apr13.html

7. puntana: l’Esodo giuliano-dalmata https://www.anvgd.it/notizie/15034-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-7-04apr13.html

8. puntata: Trattato di Osimo e rapporti con la ex Jugoslavia https://www.anvgd.it/notizie/15055-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-8-09apr13.html

9. puntata: l’assistenza agli Esuli https://www.anvgd.it/notizie/15080-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-9-11apr13.html

10. puntata: la cruda realtà della profuganza https://www.anvgd.it/notizie/15081-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-10-06mag13.html

11. puntata: le critiche https://www.anvgd.it/notizie/15100-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-11-08mag13.html

12. puntata: la riconoscenza degli Esuli https://www.anvgd.it/notizie/15128-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-12-10mag13.html

13. puntata: la prima edizione de “L’esodo dei 350mila…” https://www.anvgd.it/notizie/15138-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-13-13mag13.html

14. puntata: le interviste https://www.anvgd.it/notizie/15169-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-14-16mag13.html

15. puntata: l’ultima edizione de “L’Esodo dei 350mila…” https://www.anvgd.it/notizie/15193-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-15-20mag13.html

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