Il futuro dei Balcani, Bruxelles, la dialettica pubblico-privato come routine delle donne di potere. C’è una consequenzialità fra l’uscita della Croazia dal conflitto del 1991 e il suo prossimo ingresso nell’Ue che, spiega il ministro degli Affari esteri e europei Vesna Pusic, immunizza la popolazione croata dal disfattismo degli euro-delusi. «Abbiamo usato l’esperienza di Paesi diversi per darci un assetto istituzionale che non ci sognavamo neppure 11 anni fa», nota la Pusic a margine della conferenza «Women in Diplomacy – Building a Network» organizzata alla Farnesina. Oggi a rispondere di quel percorso è lei, sociologa, diplomatica, punta del partito liberaldemocratico, appassionata lettrice di Havel ma anche moglie, mamma e cuoca provetta specializzata in un mix di melanzane, pomodori, feta, aglio e menta.
Cosa significa per la Croazia entrare in un’Europa piegata dalla crisi?
«La Croazia entra nell’Ue in un periodo poco euforico. Ambo le parti hanno un approccio più razionale a causa della crisi. Il primo big bang europeo avvenne nel 2004 quando l’allargamento rappresentava la fine della guerra fredda, c’erano gli Havel, i Michnik, si parlava di libertà e democrazia. Oggi i temi sono i piani di salvataggio e l’assistenza alle banche nazionali. È ovvio che sarebbe stato meglio diventare membri quando l’economia filava. Ma per la Croazia, che ha avviato le procedure nel 2001 ed è la prima società post bellica contemporanea a essere ammessa, il percorso d’ingresso è servito a costruire lo Stato».
Sei mesi fa il 67% dei croati ha detto sì all’Europa. Nessuno ha cambiato idea dopo aver visto la sorte della Grecia?
«La crisi greca imperversava in tv già nei mesi precedenti al referendum, per questo avevamo paura. Ma sebbene nessun croato si aspetti che l’Europa risolva i suoi guai prevale la convinzione che essere dentro garantisca un livello di stabilità maggiore».
L’economia croata arretra dal 2009 e il ministro delle finanze Linic ammette che l’anno prossimo potrebbe andar peggio. Europa significa anche nuovi sacrifici. E se la gente si ribellasse come in Spagna?
«La Croazia conosce già la durezza del momento e l’aggravio della tassazione extra, basta pensare che l’Iva è passata al 25%. La nostra chance è sfruttare il potenziale ambientale come fanno Slovenia e Austria e attrarre gli investimenti stranieri snellendo la tortuosa burocrazia».
Qual è il futuro dell’Europa?
«Il presente è una frammentazione in cui le singole personalità, i singoli ministri più ancora che i singoli Paesi, contano più dell’organismo Europa, un problema particolarmente evidente nella politica estera. Per poter contare sul palcoscenico internazionale, dominato da attori come Cina e Usa, l’Europa non può che andare verso una maggiore integrazione».
Pur essendo un Paese cattolico la Croazia ha una delle leggi più liberali in tema di fecondazione assistita. Ce lo spiega?
«Abbiamo cercato il consenso popolare. I croati si aspettano dallo Stato un certo standard di servizi, riservandosi poi il diritto di scegliere in base ai propri valori e convinzioni se utilizzarli o meno».
Le primavere arabe si sono ispirate ai movimenti pro-democrazia della ex Jugoslavia. La lezione balcanica può servire anche nella gestione del post rivoluzione?
«Sebbene non abbiano lo stimolo potente dell’ammissione in Europa, i Paesi arabi in rivolta possono imparare dalla nostra esperienza che un approccio meno eroico e più pragmatico al limite della noia aiuta a ridurre la tensione. Il nazionalismo e il settarismo sono come l’inquinamento, non basta pulire per scongiurarne il ritorno. Ma i sondaggi ci dicono che alla lunga siamo riusciti a disinnescare l’emotività e ora le priorità sono economiche».
Francesca Paci
“La Stampa” 17 luglio 2012