di PAOLO RUMIZ su Il Piccolo dell'11 luglio 2010
«Sono certo che questo sarà il più grande e bello dei concerti dell'amicizia con cui da anni si conclude il Ravenna Festival, la più memorabile delle sue trasferte. Trieste deve essere più di Sarajevo, di Damasco, Erevan in Armenia e Meknes in Marocco, che hanno visto diecimila spettatori. Trieste è importante per l'Italia e le nazioni che la circondano».
«Sia chiaro. Questo è un concerto di popoli. E concerto vuol dire vivaddio cantare assieme, lasciarsi dietro le dissonanze. Quanto ai popoli, i tre popoli di questo concerto, Italia, Slovenia e Croazia, sono rappresentati dai loro ragazzi migliori. E io che li ho sentiti, posso dire che sono la garanzia di un futuro migliore, per tutti noi. Per questo e non per altro ho voluto invitare i tre presidenti della Repubblica».
Cicale, caldo sulla pianura ravennate, domani è la prova generale e Muti è finalmente contento, disteso. Sa che il concerto dell'amicizia in programma martedì sera a Trieste, sarà una festa di popolo. Non ci saranno transenne capaci di contenere l'entusiasmo per il più grande concerto che l'Adriatico abbia mai visto sulle sue sponde.
Trecentosessanta giovani sul podio, un coro potente, un'orchestra che va, che ha sciolto ogni dubbio sulla sua capacità dopo i legittimi timori di un amalgama difficile. E poi migliaia di persone in attesa dell'evento, come di un temporale dopo una siccità. Prenotazioni che arrivano da ovunque, le sedie che non bastano, i megaschermi allestiti per chi non riuscirà a farsi sotto, i presidenti invitati a mescolarsi alla festa senza troppi protocolli.
L'orchestra ha appena finito di provare l'inno di Mameli, un avvio roboante a suon di tamburi, roba da pelle d'oca. Poco prima si è provato l'inno sloveno, che poi è un allegro brindisi, e quello croato, più solenne, pannonico e asburgico. Dice: "Di voi ragazzi mi piace che avete suonato con vigore anche gli inni altrui". Li ha sentiti: nessuno si è tirato indietro. Anche i giovani di Lubiana e Zagabria hanno dato fiato alle trombe e vibrazione agli strumenti ad arco per trasformare in una cannonata «L'Italia chiamò». Un miracolo che nessun politico era riuscito a compiere sulla frontiera del Nordest.
Gli ultimi ritocchi. Si rivolge agli oboe e alle trombe, ma esita, non sa se usare l'italiano o l'inglese. Chiede: lei che cos'è? Croato, sloveno, triestino? Usa il termine "triestino" perché gli altri italiani li conosce, sono i ragazzi dell'orchestra giovanile Cherubini, le sue creature. La cosa lo diverte. Si ferma un attimo, si confida: «Il bello di queste prove è che non so da dove venite, perché siete indistinguibili. Non vedo differenza fra italiani, sloveni e croati. Non è magnifico?».
Incalza: «L'unico davvero diverso sono io, perché sono più vecchio». Decine di archetti battono sul leggio in segno di approvazione. I ragazzi sono già oltre gli steccati, chiedono un tempo nuovo per il confine, intuiscono che un muro sta cadendo, anche se forse non sono consapevoli degli steccati che l'hanno reso così a lungo impraticabile. Muti incalza: «C'è gente che non vorrebbe che voi suoniate questi tre inni insieme, ma non non ne terremo conto». Altro festoso ticchettio dalla foresta degli archetti in attesa.
Cristina, la moglie, è ancora più felice. E' lei che ha fortissimamente voluto Trieste, lei che ha trepidato per le iniziali polemiche sulle visite della memoria in programma con i tre presidenti, lei che ha intuito la necessità di buttare giù la linea Maginot dei reciproci sospetti con un grande atto musicale sinfonico. Lei, soprattutto, che ha intuito, il valore simbolico unificante del mare sulle sponde di una terra divisa.
Ieri sera le prove del coro, prima senza orchestra, oggi nell'amalgama finale. Domani prova generale e concerto in anteprima a Ravenna, poi la trasferta, che ahimé non avverrà via mare per guasto al traghetto veloce, ma che importa, è un circo allegro che si sposta, per la grande avventura di mezza estate.