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08mar12 – L’esule Mori e L’anima altrove. Nelle cose il filo della memoria

Presentato in anteprima a Roma, il 9 febbraio scorso nel corso della cerimonia di conferimento del Premio Giorno del Ricordo 2012, il nuovo libro della scrittrice esule da Pola Anna Maria Mori è oggetto della recensione apparsa sul “Corriere della Sera” il 7 marzo con il titolo Il ricordo dell’ infanzia in un sacchetto di bottoni.

 

Le case e le cose: accessori caduchi – si sa – delle vite degli uomini e delle donne. E chi si attacca alle case e alle cose viene facilmente bollato come sciocco se va bene, altrimenti come avido e gretto. E se l’amore per le case riesce ancora a trovare più facile comprensione, quello per le cose è quasi imperdonabile. Ma c’ è attaccamento e attaccamento, s’intende leggendo il nuovo libro di Anna Maria Mori, L’anima altrove (Rizzoli editore) nel quale la scrittrice rinnova il ricordo della sua infanzia in Istria, della sua fuga assieme alla famiglia, del destino simile di molti amici e parenti, della perdita irreparabile che ha segnato l’anima di tutti quanti. Case abbandonate, espropriate, requisite, rovinate, spesso distrutte, e cose – mobili, soprammobili, tappeti, lampade, abiti e giocattoli – a volte lasciate indietro, a volte portate con sé nella fuga ma poi sparite, rubate, volatilizzate, diventano nella memoria di chi è costretto a prendere l’amara strada dell’ esilio, parti essenziali di un’esistenza, componenti dell’anima, per così dire, senza le quali si rischia di perdere identità. O si ha la sensazione di perderla, il che si equivale.

 

Né importa che altrove poi si finisca, bene o male, per trovare una nuova sistemazione, magari più bella e funzionale, e che le suppellettili siano impeccabili: resterà sempre il lutto per le cose scomparse che avevano arredato il tempo dell’oro, della speranza, della fiducia. Si può definire questo lutto, questa inestinguibile nostalgia per una vita migliore, nel luogo degli affetti e delle radici come vile, avido attaccamento alle cose? Anche chi non ha vissuto l’esperienza dell’esilio può comprendere che là dove tutte le certezze sono perdute una cassapanca, una poltrona, un lume, un vaso, perfino la federa di un cuscino possono aiutarci a definire almeno un poco chi eravamo e chi siamo. Non è il culto degli oggetti: è il bisogno che l’uomo ha di non strappare il filo della memoria, di poter vedere e toccare un manufatto, pur senza alcun valore commerciale, riconoscendolo come parte di una vita che non si può e non si vuole dimenticare, pena, a volte, l’incapacità di adattarsi a una nuova esistenza. Ma non ci possono essere le fotografie per questo? Ci vuole proprio una poltrona, un quadro, un – brutto – vaso di cristallo? Sì, ci vogliono – le foto, si sa, sconsolano – e il benefico talismano può essere anche molto meno di un vaso o della federa di un cuscino. Un sacchetto pieno di bottoni, per esempio, come quello che ha accompagnato l’esilio della famiglia Mori, dove ciascuno, di osso, di stoffa, di metallo, di cuoio o di madreperla, rievoca un abito, l’occasione per la quale è stato fatto e la persona che l’ha indossato; e dove tutti insieme riflettono un barlume dei beati anni di quando il mondo era ancora in ordine.

 

Isabella Bossi Fedrigotti

“Corriere della Sera” 7 marzo 2012

 

 

 

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